Uno dei consiglieri più influenti di Zelensky ha riacceso l’attenzione sullo Ior, l’istituto per le opere di religione, accennando a investimenti della Russia nella banca vaticana. Lo Ior non gode di ottima fama perché da anni è coinvolto in vicende d’Oltretevere poco edificanti. Ma se i media lo rappresentano forse più oscuro di quello che è, è innegabile che il nodo dello Ior nelle intricate finanze vaticane sia reale.
Mykhajlo Podolyak, uno dei consiglieri più influenti del presidente Zelensky, ha riacceso con clamore l’attenzione sullo Ior, l’Istituto per le opere di religione. In un’intervista con la televisione ucraina Canale 24 rilanciata dal sito Il Sismografo, il giornalista ha denunciato la posizione filorussa di papa Francesco – negando quindi la possibilità di una mediazione della Santa sede – e ha accennato a investimenti della Russia nella banca vaticana, che a sua volta ha smentito con decisione Podolyak.
Da oltre mezzo secolo lo Ior è però sullo sfondo di vicende d’Oltretevere che di edificante hanno ben poco. E, nonostante indubbi sforzi di riforma, l’immagine pubblica rimane negativa e oscura. Come quella della sua sede, il massiccio torrione quattrocentesco di Niccolò V che protegge il palazzo papale riedificato un secolo più tardi: un’ubicazione che supera le fantasie di scrittori e registi. Ma se le rappresentazioni mediatiche utilizzano le tinte più fosche, il nodo dello Ior – nel contesto intricatissimo delle finanze vaticane – è reale e innegabile, tanto da essere trattato nelle riunioni dei cardinali durante le sedi vacanti.
La storia
La questione dello Ior emerge con durezza, come confida il cardinale Villot all’amico Antoine Wenger, durante infuocate discussioni nell’agosto del 1978 dopo la scomparsa di Paolo VI, il papa che in materia tenta di cambiare passo ma viene fatto incespicare e fallisce. Ed è facile ipotizzare che l’argomento da allora sia tornato a ogni morte di papa. Con franchezza lo affronta – sia pure in modo interlocutorio – Francesco, eletto da pochi mesi, nella prima conferenza stampa sul volo di ritorno dal Brasile, il 28 luglio 2013: «Io non so come finirà lo Ior; alcuni dicono che forse è meglio che sia una banca, altri che sia un fondo di aiuto, altri dicono di chiuderlo».
Ricostruire la preistoria e la storia dello Ior porta a incrociare le vicende della Santa sede, dal crollo dello stato pontificio ai disegni di riforma delle finanze vaticane messi in atto da papa Montini. Clamorosi sono gli scandali che si verificano durante il pontificato di Giovanni Paolo II e che motivano le riforme di Benedetto XVI e di Francesco. Si susseguono colpi di scena burrascosi – e a tratti convulsi – durante le quali alla presidenza dello Ior si succedono nel giro di sette anni ben quattro presidenti: gli italiani Angelo Caloia ed Ettore Gotti Tedeschi, il tedesco Ernst von Freyberg e il francese Jean-Baptise de Franssu.
Nel frattempo le ricerche storiche e le inchieste giornalistiche si moltiplicano. Aiutando a orientarsi nell’attualità, anche se libri e articoli sono parte – spesso non neutrale – delle vicende stesse e vanno dunque analizzati criticamente. Tra questi, bisogna ricordare le inchieste di Gianluigi Nuzzi nel Libro nero del Vaticano, ma anche Paradiso Ior con postfazione di Marco Pannella, i libri di Fabio Marchese Ragona, di Francesco Peloso e il recente Ior (Ares) di Francesco Anfossi, giornalista di Famiglia Cristiana. E sintesi più generali, con molti documenti, sono nei libri di John Pollard, di Benny Lai, di Emiliano Fittipaldi e di Pier Virginio Aimone Braida.
Col favore del segreto
Persino la preistoria dello Ior è segnata da un fattaccio. Il nucleo originario dell’attuale organismo è una commissione cardinalizia fondata nel 1887 da Leone XIII per amministrare i beni della Santa sede dopo la presa di Roma. L’organismo ha sede nel palazzo papale ed è mantenuto riservatissimo. Ma nel 1900 sparisce dalla cassaforte mezzo milione di titoli al portatore: un furto facilitato proprio dal segreto che circondava l’ufficio, non sorvegliato dai gendarmi papali «semplicemente perché non sapevano che esistesse», riassume efficacemente Anfossi.
Riformatore radicale è anche in questo ambito Pio X, ma il papa veneto riesce solo a razionalizzare e non a centralizzare le finanze, a causa delle resistenze tenaci che gli vengono opposte. Un quindicennio più tardi, con il lombardo Pio XI – grazie soprattutto all’opera straordinaria del conterraneo Bernardino Nogara, il banchiere la cui biografia è ora ben ricostruita da Angelo Caleca (Al servizio dell’Italia e del Papa, il Mulino) – l’amministrazione delle finanze d’Oltretevere si assesta finalmente su solide e sicure basi, come non avverrà più.
Tra le due guerre anche l’organismo istituito da Leone XIII si evolve, e nel 1938 si trasferisce nel torrione, finché con Pio XII nel 1942, in tempo di guerra, nasce formalmente lo Ior, che – secondo una ricerca di Patricia McGoldrick – arriva a finanziare contro Hitler l’industria bellica statunitense. Ma la lungimirante stagione lombarda è ormai finita, e tornano i romani.
«Converrà veder chiaro»
Tra questi Massimo Spada, segretario amministrativo dell’organismo, che – come ricorda Giovanni Antonazzi (Ai confini del regno, Edizioni di Storia e Letteratura) – viene descritto nel 1961 da papa Roncalli nelle sue agende: «Tempra forte, molta capacità circa mammonam [il denaro, nel latino evangelico]: larga competenza a servizio economico e finanziario: ma ricerca di proprii interessi all’ombra o anche sotto il raggio della Santa Sede. Converrà veder chiaro».
Ma Giovanni XXIII, che muore nel 1963, non ne ha il tempo. E non riesce il progetto del suo successore Montini: non acquisire «nessuna partecipazione importante in nessuna impresa» e poi «fare in modo che la Santa sede non abbia un peso economico importante in nessun paese», come riassume Villot.
Di lì a poco inizia infatti la stagione dell’inesperto Marcinkus, che apre la strada all’epopea criminale di Sindona – presentato da Andreotti come «salvatore della lira» – e di Calvi, con conseguenze che gravano per anni sul pontificato di Wojtyła.
Altri silenzi
Scritto con efficace piglio giornalistico e con nuovi apporti documentari, il libro di Anfossi si ferma all’era di Marcinkus, evitando volutamente di entrare nella presidenza ventennale del suo successore Caloia. Evoca soltanto «il riciclaggio della “madre di tutte le tangenti” Enimont, passata per il Torrione e finita in conti svizzeri poi ritornati per corrompere molti politici di Tangentopoli». Risulta dunque reticente nel rispondere alla domanda se l’immagine dello Ior corrisponda a quella di «una banca a metà tra un paradiso fiscale e una lavanderia di denaro sporco».
Il silenzio su Caloia si spiega, perché l’economista e finanziere lombardo è, con il direttore generale Lelio Scaletti morto nel 2015, una delle principali fonti di Anfossi. Ma va rammentato che sia Caloia – esponente di quella «finanza bianca» appoggiata dal cardinale Martini e celebrata da Giancarlo Galli – sia Scaletti nel 2014 vengono indagati dal tribunale vaticano per riciclaggio e appropriazione indebita aggravata, avendo sottratto allo Ior milioni con la svendita di immobili. E nel 2021 il processo si chiude con una severissima condanna, confermata irrevocabilmente in appello nel 2022.
Alla condanna non accennano né la prefazione di Agostino Giovagnoli né l’autore, che pure la conosce bene. Anfossi allude alla successione di Marcinkus soltanto quando conclude il libro sulla «nuova, florida, stagione di riforme» e aggiunge, in modo criptico ed eufemistico, che «nemmeno in quel contesto sarebbero mancati i tumulti». Va sottolineato che a muovere il tribunale è, nei primi mesi del pontificato di Bergoglio, lo stesso Ior, ora governato in prevalenza da non italiani, anche se italiani sono gli uomini di fiducia del papa: il direttore Gian Franco Mammì e il prelato Battista Ricca.
Figuri
Lo stesso avviene per la vicenda molto ingarbugliata e ben più controversa che ha coinvolto e indebolito la stessa Segreteria di stato e portato al criticatissimo processo Becciu, ormai alla vigilia della conclusione. Un succedersi di fatti che ha evidenziato, come con piena ragione ha scritto Ernesto Galli della Loggia, il protagonismo di «figuri» ai quali in Vaticano sono stati assegnati rilevanti incarichi finanziari, ma «che qualunque persona appena avvertita avrebbe messo alla porta all’istante guardandosi bene dall’affidargli sia pure un centesimo»
Da storico Giovagnoli scrive che l’attuale normalizzazione delle finanze vaticane volta a uniformarle «il più possibile a standard internazionali» è «una tendenza comprensibile, che rischia però di sacrificare le peculiari finalità di tali finanze».
E arriva ad affermare che «anche le resistenze a una totale centralizzazione e unificazione del governo delle finanze della Santa Sede non esprimono solo la volontà di sottrarsi a qualsiasi controllo, ma rispondono anche a ragioni profonde». Che derivano dalla storia.
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