- Questa è una storia strana in cui l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema finisce nel mezzo di una vendita di armi italiane alla Colombia.
- D’Alema agisce “informando” Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri di un’interesse della Colombia per acquistare armi made in Italy.
- Ora però è in corso un’indagine interna dell’azienda, perché a quanto pare, mentre D’Alema “informava”, una trattativa ufficiale e con tutti i crismi era già in corso.
La storia è veramente strana e piena di contraddizioni. Ieri il ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, rispondendo a un’interrogazione parlamentare, ha detto che il suo dicastero «non svolge funzioni di sorveglianza e controllo sulle aziende del settore né sulle procedure di vendita di materiale bellico all’estero».
Il governo quindi non sa nulla e nulla vuole sapere della presunta trattativa parallela per la vendita di armi alla Colombia da parte di Leonardo-Finmeccanica e Fincantieri, trattativa che avrebbe visto come protagonista l’ex presidente del Consiglio Massimo D’Alema, mentre l’amministratore delegato di Leonardo-Finmeccanica Alessandro Profumo è, per ora vagamente, sospettato di aver tenuto bordone alle velleità affaristiche dello storico leader della sinistra nella sua veste senile di advisory board della multinazionale della consulenza Ernst&Young.
Mestiere che così l’interessato descrive: «Il mio lavoro è quello di consulenza strategica, relazioni, ma non sono uno che va a fare mediazioni di vendita. Con la mia professione cerco di sostenere anche le imprese italiane all’estero. Spero non sia un reato».
Ieri Guerini ha aggiunto un particolare interessante, l’unico elemento davvero concreto che induce a pensare che l’affare sia davvero serio: i vertici di Leonardo e Fincantieri «mi hanno comunque informato di aver attivato procedure di indagini interne i cui risultati saranno oggetto di valutazione da parte degli organi societari preposti».
Per quanto riguarda Leonardo, la funzione cosiddetta di audit fa capo al presidente Luciano Carta, ex generale della Guardia di finanza ed ex capo dei servizi segreti, i cui rapporti con Profumo sono notoriamente deteriorati. In pratica il governo attende di sapere da Carta se con le sue indagini interne troverà elementi in grado di incastrare Profumo, cioè la prova che nelle sue chiacchiere cordiali con l’amico D’Alema sia andato oltre il segno.
La produzione e vendita di armi si conferma così una materia non solo eticamente ed esteticamente discutibile, ma anche troppo complicata per le capacità etiche ed estetiche di manager e politici italiani.
La stessa ricostruzione dei fatti con cui D’Alema, intervistato da Repubblica, ha cercato con modesta efficacia di discolparsi, lascia spazio a numerosi punti interrogativi. Dice D’Alema: «Sono stato contattato da personalità politiche colombiane, con incarichi istituzionali, che mi hanno detto: “Il parlamento colombiano ha deliberato uno stanziamento per l’ammodernamento delle forze armate. E vorremmo puntare sui prodotti italiani”. Si tratta di un mercato all’interno del quale la competizione è durissima. Io ho informato subito Leonardo e Fincantieri, che sono importanti clienti di Ernst&Young».
Trattative parallele
Il mercato delle armi, come ci insegna un professionista competente come D’Alema, è molto competitivo. Si dovrebbe dunque supporre che quando il parlamento colombiano delibera di comprare armi (l’esperto parla di 5 miliardi di euro) tutti i produttori lo vengano a sapere all’istante, visto che pagano lobbisti e informatori annidati in ogni palazzo governativo del pianeta.
E chi deve comprare le armi non deve far altro che aspettare le offerte provenienti da tutti i giganti mondiali, pronti a scannarsi a colpi di sconti e a colpi bassi. Invece le personalità politiche colombiane cercano uno che non è più in parlamento da dieci anni per chiedergli se può sensibilizzare Leonardo e Finmeccanica a occuparsi del bisogno di armi della lontana Colombia.
D’Alema parla con Profumo, ma non si sa che cosa si dicono. Intorno all’ex premier, si legge in una approfondita inchiesta a puntate di Giacomo Amadori per la Verità, si forma una variopinta squadra di mediatori: tra gli altri l’avvocato Umberto Claudio Bonavita dello studio legale Robert Allen Law di Miami, l’ex sindaco di Carmiano (Lecce) Giancarlo Mazzotta e il leccese Emanuele Caruso che presenta a D’Alema l’ex comandante dei gruppi paramilitari anticomunisti Auc Edgar Ignacio Fierro Florez, meglio conosciuto come don Antonio, condannato nel 2011 a 40 anni di carcere per vari reati tra cui diversi omicidi, ma poi perdonato dal presidente della Colombia.
Il tentativo di formalizzare un ruolo per la squadra colombian-salentina naufraga un mese fa quando l’ambasciatrice della Colombia a Roma sente puzza di bruciato e si mobilita il sottosegretario alla Difesa Giorgio Mulè, di Forza Italia, ex direttore del settimanale Panorama di cui Amadori è stato un inchiestista di punta.
In questo intreccio da commedia all’italiana D’Alema vede in gioco solo la sua reputazione politica e il suo prestigio di professionista degli affari, mentre Profumo rischia la poltrona. Per una ragione semplice che fa da sfondo al tutto. Quando D’Alema va a cercare di aprire un nuovo canale di trattativa, Leonardo ha già in corso una trattativa con il governo colombiano dotata di tutti i crismi ufficiali e dei rituali timbri governativi. E ha già scelto il mediatore, la società colombiana Aviatek Group presieduta da un certo Luis Zapata.
L’audit del generale Carta deve appurare se Profumo, per far contento D’Alema che voleva far contento Profumo ma anche i suoi amici con i quali discuteva di una provvigione da 80 milioni di euro, ha di fatto incoraggiato una trattativa parallela per soppiantare quella già incardinata nei rapporti ufficiali tra i due governi. L’unica cosa già accertata è che manager e politici italiani sono troppo chiacchieroni per saper vendere le armi ai paesi poveri.
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