Per decenni vedere sul grande schermo persone alticce era la normalità. Con gli anni Duemila però l’alcolismo smette di essere simpatico. Oggi nei film chi abusa di alcolici compare molto di rado e quando c’è spesso rappresenta un violento o qualcuno di sofferente relegato ai margini della società
Come molto delle nostre vite anche la presenza di persone ubriache è stata rimossa dalla nostra coscienza. Solo fino a 50 anni fa invece era per molti qualcosa di abituale. Di ubriachi se ne trovavano nelle sale da ballo, nei ristoranti, nei bar ovviamente e per strada, nei cinema e a zonzo. Lo sappiamo perché ce lo raccontano i film da sempre. Tutto il cinema delle origini e quello muto è pieno di personaggi ubriachi, ovviamente in chiave comica. Se ne rideva tantissimo degli ubriaconi, perché il cinema degli inizi veniva dritto dagli spettacoli da fiera e le comiche in particolare erano piene di ex-clown o attori con una formazione da clown.
Anche negli anni del proibizionismo (dal 1920 al 1933) l’America non rinunciava agli ubriaconi nelle storie. Lo faceva Buster Keaton in Viva la birra (1933) e anche Charlie Chaplin ne aveva fatto personaggi ricorrenti nelle comiche come in film tipo Luci della città (1931), nel quale rappresentava addirittura un uomo ricchissimo che ogni notte si ubriacava a un livello da non ricordare niente il giorno dopo.
Tutti avevano esperienza di cosa succedesse a bere oltre i propri limiti, e questo era così comune e tollerato da finire anche nei film per bambini. Già nei corti animati come le Silly Symphonies, ma poi anche nei lunghi ancora negli anni Quaranta Disney proponeva momenti in cui i personaggi esageravano con l’alcol. Anche bambini. Beve (e fuma!) Pinocchio nel Paese dei Balocchi, beve fino a ubriacarsi, Dumbo (per errore) finendo a sognare di elefanti rosa per poi svegliarsi con una terribile sbornia in cima a un albero. Perché anche i bambini sapevano cosa accada a bere molto e che è normale svegliarsi in luoghi strani.
Un’istituzione sugli schermi
Mentre il cinema italiano toccava solo tangenzialmente l’argomento, vista anche la nostra minor propensione a bere molto, quello nordeuropeo e soprattutto americano l’aveva istituzionalizzata. Così tanto che solo nel 1945 arriva il primo grande film che dipinge l’alcolismo come una pratica distruttiva. È Giorni perduti di Billy Wilder (americano d’adozione ma viennese di nascita e formazione).
Da lì inizia lentamente a farsi strada l’idea di una revisione. Nascono i film contro l’alcol e anche star amate e simpatiche come Jack Lemmon ne girano, come I giorni del vino e delle rose nel 1962. Come racconta la serie tv Mad Men, ancora negli anni Sessanta il consumo di superalcolici era una pratica quotidiana anche sul posto di lavoro e un certo grado di stordimento, nella cultura anglosassone (per non dire in quella dei paesi del nord Europa) era ampiamente tollerato. Almeno per gli uomini. È infatti spaventosa l’ubriacatura di Bette Davis in Che fine ha fatto Baby Jane? (1962).
È l’America a guidare il culto dei personaggi ubriachi comici o ubriachi simpatici, ma anche l’America a guidare la loro condanna. Senza che le due cose entrino in contrasto. Nel cinema della seconda metà del Novecento, ubriacarsi può fare male ma rimane una cosa simpatica. Invece dall’altra parte del mondo, a Hong Kong, negli anni Ottanta Jackie Chan trova una popolarità eccezionale con Drunken Master, film di arti marziali comico in cui la parte più esilarante è proprio una tecnica di combattimento inventata dal protagonista che si basa sulle movenze dell’ubriaco, spiazzanti e imprevedibili.
Cambiamento di mentalità
Ci vorrà tutta un’altra era e la nascita di un altro rapporto con il cibo e il vino perché l’alcolismo smetta di essere simpatico. Negli anni Novanta Nicolas Cage vince un Oscar interpretando un uomo con un problema di alcol in Via da Las Vegas, mentre nei 2000 i personaggi ubriachi sono sempre meno adorabili. Hancock, il supereroe di Will Smith del 2008, è sempre rovinato e ubriaco e nonostante lui sia un personaggio di commedia quel dettaglio lì non lo è mai. Anche gli amici di Una notte da leoni (2009), che devono ricostruire cosa abbiano fatto la notte precedente a Las Vegas quando si sono ubriacati tanto da non ricordare più nulla, in realtà scoprono di essere stati vittima di una droga, e non del solo alcol.
Si poteva in fondo capire che le cose erano cambiate già da Sideways, il film indipendente del 2004 di Alexander Payne. Lì veniva celebrato il mondo della degustazione del vino in California, un’esaltazione del bere bene come raramente si era vista in America. Anche in quel film c’è una scena di ubriacatura, ma è usata per mettere in chiaro che esiste una maniera sana, intellettuale, piacevole e sensata di bere e un’altra che non racconta altro se non la disperazione.
Oggi l’ubriaco nei film compare molto di rado, e se lo fa è un problema per gli altri, spesso un violento, di certo ai margini della società o sofferente. E forse proprio per questo, proprio perché di nuovo oggi la visione su quel tema è compatta e univoca, il cinema ha risposto con un’altra sovversione. Solo a questo punto dell’evoluzione del nostro rapporto con il bere poteva arrivare un film come il danese Un altro giro, che nel 2020 ha raccontato dei personaggi che scelgono di essere sempre alticci, di giorno e sul luogo di lavoro (un liceo!). L’ubriacatura come anelito di vita, l’alcol per riuscire a entrare in contatto con gli altri, qualcosa che non anestetizzata ma finalmente libera, aiuta rende vivi.
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