Troppi i medici obiettori nelle strutture presenti sul territorio e pochi i presidi funzionanti. Diverse strutture operano con orari ristretti e con carenze sensibili di personale. Sono presenti ovunque obiettori di coscienza: a Locri il 100 per cento del personale
Gli inquirenti parlano di infanticidio, ma il racconto di ciò che è accaduto in queste ore a Reggio Calabria è ancora tutto da accertare: da una prima ricostruzione, infatti, una donna di ventiquattro anni è stata accusata di duplice infanticidio dopo il ritrovo – da parte della madre della donna – di due feti all’interno di un armadio.
Sulla giovane donna, attualmente ricoverata nel reparto di Ostetricia e Ginecologia del Grande ospedale metropolitano di Reggio Calabria dove si era recata nei giorni scorsi per un malore, cala la scure della gogna pubblica dimenticando che, secondo i dati del ministero della Salute relativi al 2021, gli aborti che sono avvenuti in contesto di clandestinità sono stati tra i 10 e i 13mila. Oltre quei dati, vecchi di tre anni, il nulla.
Aborti clandestini
Sugli aborti non in sicurezza, che mettono a rischio la vita delle donne, Federica di Martino, psicoterapeuta fondatrice della pagina “Ivg ho abortito e sto benissimo”, dichiara a Domani che «nonostante sia un fenomeno che, a detta della politica, continua a destare forte preoccupazione, di studi e ricerche a riguardo ce ne sono ben poche. E questo dovrebbe già interrogarci parecchio. D’altronde chi abortisce in questo Paese è già una pària, una donna non vista marchiata a fuoco dalla colpa e dal giudizio».
A maggior ragione, chi si trova costretta ad accedere a una pratica di aborto non sicura, rimane solo una cifra approssimativa in un range vago e senza alcuna speranza di essere vista e intercettata, e con lei i suoi bisogni e le sue paure.
Di Martino incalza: «Qualcuno si è mai chiesto perché, in un Paese in cui, in linea teorica, l’aborto non solo è garantito da una legge dello Stato ma rientra nei Lea (livelli essenziali di assistenza, per cui ad esempio, deve essere garantito a persone migranti senza permesso di soggiorno, senza allertare le forze dell’ordine), una donna dovrebbe ricorrere a un aborto in clandestinità? A chi fa piacere pensare di correre rischi per la propria vita e salute per accedere a una pratica estremamente sicura, gratuita e garantita dal Sistema sanitario nazionale? Perché a furia di puntare il dito e cercare colpevoli da additare come “assassine” o “sciagurate”, ci siamo dimenticati le domande fondamentali».
Le donne, infatti, sono continuamente costrette a «migrazioni intra ed extra regionali a causa del numero di personale obiettore e di liste d’attesa infinite, dove sussistono persone che vivono in contesti di violenza domestica, donne con background migratorio che non ricevono le informazioni corrette e non vengono accompagnate in percorsi adeguati di sostegno attraverso la presenza di mediatori e mediatrici culturali, ragazze minorenni che dai nostri politici e dai commenti della giustizia social vengono additate come “ragazzine che pensano solo a fare sesso e usano l’aborto come contraccettivo”. Persone trans e non binarie che vivono in un Paese che continuano a negare la loro esistenza».
Per Federica di Martino, questa è l’Italia che si continua a non voler vedere, «a nascondere sotto al tappeto della violenza giudicante e colpevolizzante. È l’Italia di oggi, che continuano a tenere a distanza col ricordo delle mammane, dei loro tavolacci e delle grucce, mentre non ci si rende conto di quello che tutti e tutte noi abbiamo contribuito a costruire, costringendo migliaia di persone a non sentirsi sicure in un Paese che non le vuole».
La conferma che interessi solo «punire, e non capire, ci arriva anche dalle misure messe in campo dalla politica. Infatti, nel 2016, grazie al governo Renzi, l’ammenda pecuniaria per aborto clandestino è passata dalla sanzione simbolica di 51 euro a un range che va dai 5mila ai 10mila euro», cosa che di fatto ha messo ancora di più a rischio la salute delle donne e la possibilità di andare in ospedale nel caso di eventuali complicazioni.
Il report sulla Calabria
Il dato del personale sanitario obiettore di coscienza è alle stelle ma i dati sono fermi al 2020 e i consultori sono funzionanti solo su carta: il risultato del report appena presentato e curato dal Coordinamento regionale Pari opportunità della Uil Calabria, è impietoso.
In Calabria, come nel resto del Paese, ci sono pochi consultori e funzionano a singhiozzo: la legge numero 34/96 prevede la disponibilità di un consultorio familiare ogni 20mila abitanti, ma di fatto ve ne è 1 ogni 35mila.
In Calabria, il loro ruolo e la loro funzione, nel tempo si sono significativamente ridotte: attualmente se ne contano 62, con uno scarto di 31 consultori rispetto allo standard ribadito dal decreto ministeriale, che ne prevederebbe 93. Secondo il report «da anni, purtroppo, sono diventati delle scatole vuote, o meglio svuotate, vittime sacrificali dei tagli al welfare, piegate da investimenti sempre più risicati e marginalizzate nelle riorganizzazioni della sanità territoriale. Infatti, quello che viene fuori dalla nostra indagine è che molte di queste strutture hanno carattere ambulatoriale e non di consultorio».
Si sottolinea anche che diverse di queste strutture operano con orari ristretti e con carenze sensibili di personale: quasi tutte sono chiuse sabato e domenica e sono presenti ovunque obiettori di coscienza.
I consultori nella Locride
I consultori non riescono a funzionare in modo costante ed efficiente: il poco personale in organico deve dividersi tra più strutture per riempire tutte le ore e tappare i buchi che altrimenti comporterebbero la chiusura di alcune sedi.
A questo si aggiunge il numero del personale obiettore: in Calabria, secondo gli ultimi dati diffusi dal ministero della Salute, che risalgono al 2021 e sono riferiti al 2020, quasi il 65 per cento dei ginecologi è obiettore di coscienza. Se si calcola poi l’obiezione di coscienza di anestesisti e personale non medico la percentuale sale al 74 per cento.
A causa di questa alta percentuale le donne che scelgono l’Ivg (interruzione volontaria di gravidanza) sono costrette a spostarsi fuori provincia o addirittura fuori regione. Vibo Valentia figura tra quei territori in cui la maggior parte delle interruzioni di gravidanza avvengono fuori provincia e per farlo si arriva ad attendere 28 giorni, un tempo lunghissimo se si tiene conto che l’interruzione di gravidanza deve avvenire entro le 9 settimane di gestazione.
Adele Murace, della rete “Riprendiamoci i consultori” della Locride, dichiara a Domani che «i consultori sotto tutti sottodimensionati a livello di organico. Dalla chiusura di 200 consultori pubblici in tutta Italia c’è stata contemporaneamente un’apertura degli stessi consultori in strutture private di stampo cattolico e sussiste un disegno politico per smantellarli».
Sui dati fermi al 2020, Murace afferma che la Rete e Non una di Meno hanno provato a chiedere quelli aggiornati, ma non sono arrivati, probabilmente perché «dimostrerebbero l’elevato numero di obiettori di coscienza. Ci sono intere strutture con il cento per cento di obiettori, si autodenuncerebbero secondo la legge 194».
Per poter accedere al diritto all’aborto, attualmente, «bisogna spostarsi dalla Locride a Reggio Calabria, a Soverato o a Catanzaro, con tantissimi chilometri da fare perché l’ospedale di Locri ha il cento per cento di obiettori di coscienza; dunque non lo garantiscono».
L’Ivg a Cosenza
Vittoria Morrone fa parte del gruppo “Fem.In. Cosentine in lotta”, nato nel 2019, che come primo obiettivo si è posto l’inserimento della pillola abortiva Ru486 nell’ospedale di Cosenza, giunta nel 2022 dopo anni di battaglie, presidi e raccolte firme.
La questione dell’accesso all’aborto all’ospedale di Cosenza è molto precaria: «Fino all’estate del 2023 c’è stato un solo medico disposto a praticare l’aborto che garantiva il servizio: se lui andava in ferie o si ammalava non si poteva abortire a Cosenza e non c’era la possibilità di rivolgersi ad altri ospedali sul territorio, ma in luoghi non facili da raggiungere: un vero ostruzionismo al diritto all’aborto».
I vari consultori della provincia di Cosenza sono, infatti, altamente depotenziati: «Alcuni non hanno nemmeno un medico ginecologo presente dal lunedì al venerdì ma solo poche volte alla settimana in territori molto isolati, e molti di questi sono obiettori. Di conseguenza la donna che vuole accedere all’aborto si deve trasferire altrove per essere presa in carico».
A Cosenza, inoltre, c’è sempre stata la prassi per cui i medici obiettori all’interno dei consultori si rifiutano di fare il certificato per l’interruzione di gravidanza: una postilla opaca della legge 194 sull’obiezione di coscienza da parte dei sanitari che rappresenta un altro grande ostacolo all’aborto libero e sicuro.
Il gruppo Fem.In. si occupa anche di accompagnamento all’aborto, con un numero di telefono sempre attivo: molte le donne accompagnate e supportate, anche perché nel sito dell’Asp di Cosenza non c’è un vademecum su come si possa accedere all’aborto e nemmeno un numero di telefono.
La storia che Fem.In. ha condiviso con Domani, è quella di una ragazza straniera in Erasmus che si è rivolta a loro perché, nel periodo natalizio, aveva necessità di abortire. Era a ridosso delle settimane per cui si può accedere all’aborto e voleva usare la pillola abortiva ma non riusciva ad accedere alla trafila: «Abbiamo dovuto accompagnarla in due consultori diversi perché nel primo consultorio abbiamo trovato un medico obiettore che si è rifiutato di fare il certificato. Non solo non ha potuto abortire all’Ospedale di Cosenza ma a Castrovillari, dove non era in uso la pillola abortiva, ha dovuto accedere all’Ivg chirurgica contro la sua volontà».
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