Sull’abuso d’ufficio la partita è ancora aperta. Il prossimo 7 maggio la Consulta si pronuncerà sulla conformità a Costituzione dell’abolizione del reato dei cosiddetti colletti bianchi, discutendo più di dieci ordinanze che descrivono la riforma Nordio come pensata per eliminare «importanti presidi penali a tutela del buon andamento e dell’imparzialità».

Dal 24 settembre dello scorso anno, quando il tribunale di Firenze per primo sollevò la questione davanti ai giudici della legge accogliendo l’istanza del penalista Manlio Morcella, si sono susseguite moltissime pronunce che si interrogano sulla legittimità dell’abrogazione della norma: tra un mese, come detto, verranno trattate in forma riunita dalla Corte, che dunque avrà il compito di decidere la “sorte” di uno dei punti più cari al governo.

Una riforma dall’effetto «dirompente», frutto di scelte «arbitrarie» e «non riconducibile a un legittimo esercizio della discrezionalità». Una riforma che interviene «in modo pesante sul sistema dei reati contro la pubblica amministrazione», è quanto scritto nell’ordinanza del tribunale fiorentino. Che aggiunge: «La norma (sul reato di abuso di ufficio, ndr) evitava il dilagare di condotte dolosamente arbitrarie e lasciava ai cittadini uno strumento attraverso cui ricorrere alla magistratura».

Piovono ordinanze

Ma non solo Firenze, a rimettere gli atti alla Consulta sono, tra gli altri, i giudici dell’udienza preliminare del tribunale di Locri e di quello di Firenze, il tribunale di Busto Arsizio, il tribunale di Bolzano e, ancora, quelli di Teramo e di Catania. Finanche la Cassazione, d’ufficio, ha sollevato la questione con ordinanza del 7 marzo scorso: il giudizio su cui avrebbe dovuto decidere riguarda una vicenda tutta campana.

Andiamo con ordine. Comune di Solofra, provincia di Avellino. È il 23 settembre 2011 quando il consigliere comunale Vincenzo Clemente, nel corso di un accesso dibattito assembleare, dichiara di «dimettersi dal mandato di consigliere», intendendo in realtà, come risultava dal tenore complessivo del suo intervento, la volontà di dimettersi dalla carica di capogruppo.

«Nella successiva seduta del 25 ottobre 2011 – si legge negli atti – il presidente del Consiglio comunale ha dichiarato di avere ricevuto una nota da parte del segretario comunale, Matteo Spinelli, che gli aveva comunicato che Vincenzo Clemente non era più in carica, essendosi dimesso da consigliere comunale. Con nota emessa in data 27 ottobre 2011, il presidente del Consiglio comunale ha dunque comunicato a Clemente la decadenza immediata dalla carica di consigliere comunale, nonostante le sue contestazioni».

Così, alla luce dei fatti, il segretario Spinelli, denunciato da Clemente per abuso di ufficio e accusato di avergli, in concorso con il presidente del consiglio comunale, intenzionalmente procurato un danno ingiusto facendolo illegittimamente decadere dalla carica di consigliere, viene condannato in primo grado dal tribunale di Avellino.

In secondo grado Spinelli, considerata la riforma Nordio, rinuncia alla prescrizione e viene, ancora una volta, condannato: come previsto la depenalizzazione del reato arriva a “salvarlo” ma, in Cassazione, arriva anche la decisione dei giudici di sollevare la questione di legittimità e rimettere gli atti alla Consulta. Cosa accadrà?

Gli altri casi

Molti, pertanto, i processi al momento “sospesi” in vista della pronuncia di maggio della Consulta. Un altro esempio? Il giudizio riguardante la costruzione del parcheggio del lago di Braies, a Bolzano, per il quale sono imputati il sindaco Friedrich Mittermair e l’albergatrice ed ex assessora comunale Caroline Heiss.

I fatti contestati risalgono al 2016, quando nel cuore del parco naturale Fanes-Sennes-Braies viene realizzato un parcheggio in un’area boschiva di proprietà di Heiss, titolare dell’hotel Pragser Wildsee. Un’operazione, realizzata su concessione edilizia rilasciata dal Comune, che aveva portato all’abbattimento di 30 mila metri quadrati di bosco. L’indagine si era conclusa nel 2020 con la richiesta di rinvio a giudizio per Mittermair per abuso d’ufficio e Heiss per concorso in abuso d’ufficio e violazione di una legge ambientale riguardante le aree boschive protette.

Il processo poi si era aperto solo a marzo 2023, dopo due richieste di archiviazione da parte della Procura, altrettante opposizioni della parte civile e l’imputazione coatta da parte del giudice per le indagini preliminari. Ora la sua sospensione: il tribunale di Bolzano ha non a caso interpellato la Corte costituzionale proprio sulla legittimità dell’abrogazione del reato di abuso di ufficio.

Tra gli altri casi quello relativo alla faida famigliare dei Colaiacovo, la “dinastia” a guida della Colacem spa, una delle più importanti aziende italiane produttrici di cemento. Nel processo - durante il quale è stata sollevata la questione di legittimità, poi accolta - è imputata tra gli altri l’ex procuratrice aggiunta di Perugia ora in pensione e per anni numero uno dell’Antimafia, Antonella Duchini. Un processo in cui sono ipotizzati, per l’appunto, reati di abuso d’ufficio, peculato e rivelazione di segreto.

A fine requisitoria i pm hanno chiesto dodici anni e mezzo per Duchini, tredici per un suo collaboratore, ex carabiniere dei Ros. Tuttavia con la cancellazione dell’abuso d’ufficio voluta dal guardasigilli Nordio se ci sarà condanna, le pene saranno drasticamente ridotte.

Le conseguenze

Tutte vicende, queste ultime, che a prescindere dal merito, risultano pertanto emblematiche degli effetti prodotti dalla riforma Nordio. L’abolizione dell’abuso d’ufficio potrebbe sanare d’altronde diffuse illegalità e soprattutto autorizzare eccessi di potere. Qualcuno, si legge in una delle ordinanze di rimessione, potrebbe vedere attribuirsi dalla legge «poteri rilevantissimi in grado di incidere pesantemente sui diritti inviolabili, costituzionalmente garantiti, in primis la libertà personale e il patrimonio».

A ogni modo molte delle citate ordinanze che rimettono gli atti alla Consulta richiamano, come motivo “contrario” all’abolizione del reato, la Convenzione di Merida del 2003. Una carta - quella delle Nazioni Unite - che tuttora rappresenta uno strumento di anticorruzione universale legalmente vincolante. Partono da qui le molteplici istanze relative all’abuso di ufficio. Abuso di ufficio che, al tempo dell’articolo 323 del codice penale, puniva il pubblico ufficiale che violando consapevolmente leggi, regolamenti o l’obbligo di astensione, cagionava un danno ad altri o procurava un vantaggio patrimoniale.

«Come è possibile che uno Stato aderente alla Convenzione contro la Corruzione di Merida, obbligato a considerare l’inserimento del reato di abuso in atti d’ufficio nel proprio ordinamento, possa risolversi per la sua abolizione?», è scritto nel documento – per citarne uno – presentato davanti ai giudici fiorentini. Secondo i più basici principi della logica, «la disposizione convenzionale, per lo Stato contraente che, al momento della ratifica del Trattato, non annoverava un simile modello penale nel proprio ordinamento nazionale, importa l’obbligo di considerare la sua introduzione, mentre per lo Stato aderente che, alla medesima data, già lo contemplava, si atteggia alla stregua di un obbligo internazionale di stand stile».

Obbligo internazionale a restare fermi, «in forza del quale il quadro normativo interno deve rimanere invariato, non dovendo il legislatore nazionale riconsiderare l’esistenza di tale fattispecie criminosa nel proprio sistema penale», si legge infine nella stessa istanza. In altre parole, se uno Stato, nel momento in cui aderisce alla Convenzione di Merida, prevede già nel proprio ordinamento il reato di abuso d’ufficio, dovrebbe limitarsi a “mantenere” quel reato. Non a eliminarlo.

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