Carlo Mazzone si portava dietro l’animosità delle carte da gioco applicata al pallone e intorno il fumo delle sigarette come nuvole da fumetto. L’umano troppo umano per il calcio che stava salendo di classe sociale. Un Ferguson da bar
Carlo Mazzone si portava dietro l’animosità delle carte da gioco applicata al pallone e intorno il fumo delle sigarette come nuvole da fumetto. L’umano troppo umano per il calcio che stava salendo di classe sociale. Un Ferguson da bar, anche se non aveva coppe in bacheca, ma quasi 800 panchine in serie A e più di 1000 se contiamo anche C e B, un mucchio di campioni cresciuti come figli, tante stagioni senza mai perdere l’entusiasmo, mettendo a fuoco l’adesione a una vita di contrabbando all’assalto della partita migliore.
Ha lottato senza mai avere a disposizione grandi squadre, ma creando e scoprendo grandi campioni. «Dicevano Mazzone è il Trapattoni dei poveri. Rispondevo: Trapattoni è il Mazzone dei ricchi». Rimanendo con una grande curiosità che riassume il suo mondo: «Cos’avrebbe combinato Eriksson all’Ascoli?». Rispondendosi: «So cos’ho combinato io all’Ascoli: giocavo col 4-3-3, spesso a zona, e non se n’è accorto nessuno. La soddisfazione è stata che i tifosi hanno ribattezzato la via che porta allo stadio, quella che passa sopra il ponte, Via del Bel Calcio». All’Ascoli e a Costantino Rozzi deve tutto, dopo un infortunio che gli fa chiudere in anticipo la carriera di calciatore e gli apre quella di allenatore a trent’anni. Il resto è apnea per colmare il deficit dovuto al salto.
Abile addestratore
Diventa un addestratore, abilissimo, che insegna a vivere e giocare, e se stavi attento – come Pep Guardiola che poi gli dedica una Champions League – anche ad allenare; è il calcio passato, quello che portava in panchina la provincia – e si vedeva – senza giacca, con i congiuntivi fantozziani e le doppie che svaniscono nella lingua del Belli traslato dalla poesia alla tattica, con un carico di intuizioni che prima di essere calcistiche erano umane. Un maestro elementare che nelle domeniche giuste, poi anche stagioni, dava i punti ai professori universitari. «La tecnica è il pane dei ricchi, la tattica è il pane dei poveri». Mazzone è paragonabile alle friggitorie per come si è arrangiato a tirare fuori il meglio con ingredienti di battaglia, lottando contro i Cracco e i ristoranti gourmet. «Io come cuoco ho cucinato di tutto e senza mai rifornirmi al mercato delle prime scelte».
Roma neorealista
Cresciuto nella Roma neorealista tra macerie e speranza, strade polverose e campi senza erba, col rimorso di essere l’unico in famiglia che mangiava la carne perché deve correre e portare il resto, per apparecchiare. Mentre Anna Magnani corre per Roberto Rossellini, lui corre per la Roma. Per questo prima di palleggiare o piazzarne tre dietro, a Trastevere, Carlo Mazzone, impara a trattare con gli altri, a riconoscere i ragazzi che poi diverranno pure campioni.
Aveva visto cadere le bombe a San Lorenzo prima che Francesco De Gregori le cantasse per questo poi sotto le curve ci andava senza paura. Aveva marcato la fame e con quella ha misurato le stagioni non montandosi la testa, nemmeno quando fu l’unico a comprendere il più grande talento del calcio italiano: Roberto Baggio, con le sue cicatrici, di cui tutti parlavano e nessuno teneva conto: Lippi, Sacchi, Maldini, Trapattoni, Ancelotti, Ulivieri, solo Mazzone – uno abituato alla scopa – vide che era un re di denari. Lo mise sul tavolo e lasciò fare, niente più partite da mezza porzione, ma la libertà di avere il pallone tra i piedi come gli pareva. Dopo il sangue delle operazioni, il ghiaccio delle riprese, il sudore dei sacrifici, c’era finalmente il campo bambino.
Grazie a quello che sembrava il meno riflessivo dei coach, l’allenatore scomposto con troppo accento in conferenza stampa e il carico di bestemmie a bordo campo. Nel suo Brescia giocavano oltre Baggio anche Guardiola – l’Obama del pallone – e Andrea Pirlo, che Mazzone sposta, arretrandolo dietro Baggio, con una intuizione che vale una carriera: mossa che porterà principalmente qualche scudetto e una Champions League al Milan e un mondiale all’Italia.
I dettagli
È nei dettagli che sta il calcio di Mazzone, un calcio che comincia prima dei campi negli sguardi con i suoi, dove i suoi sono: Giancarlo Antognoni e Antonio Di Gennaro che allena alla Fiorentina; Claudio Ranieri e Massimo Palanca al Catanzaro; Walter Novellino e Andrea Mandorlini all’Ascoli; Antonio Conte e Francesco Moriero al Lecce; Giuseppe Signori al Bologna; Francescoli al Cagliari; e poi alla Roma aveva Abel Balbo, Mihajlović e soprattutto Francesco Totti, un discorso a parte. «Nel mio periodo sulla panchina della Roma mi ha dato enormi soddisfazioni. Ho avuto da subito la sensazione che fosse uno dei migliori, ma l’ho nascosto, non ho avuto pubblicamente grandi slanci nei suoi confronti: Roma è una città molto difficile calcisticamente e ho sempre avuto l’istinto di difenderlo, tenendo per me le idee che avevo su di lui. È stato un onore essere stato il suo allenatore».
C’è tutto: il padre, l’allenatore e il tifoso. Mazzone è un manuale del calcio orale. È Trilussa col pallone. Saggezza, ironia e poi vedemo. Disincantato ma mai cinico. Mettendo in fila le sue squadre, partite e dichiarazioni si può scrivere la storia del calcio italiano visto dalla periferia: col Perugia toglie lo scudetto alla Juventus per regalarlo alla Lazio in una nemesi pallonara che si realizza negando la fede di chi la rende possibile; che attacca la Gea e Moggi, ed è lo stesso che offeso pesantemente dai tifosi dell’Atalanta mentre perde, promette di affrontarli – «Se famo er terzo vengo sotto la curva» – che arriva, dal 3 a 1 si passa al 3 a 3 – quando c’è Baggio in squadra sono cose che succedono – e corre sotto la curva avversaria come un ragazzino, tanto che persino Michele Serra si scomoda a difenderlo: «Ma era impossibile non riconoscere, nella reazione indignata di un uomo anziano davanti a una marea di giovani insultanti, la dignità (finalmente!) di non farsi più insultare…Il “basta!” di Mazzone, così goffo e solitario, ha espresso efficacemente la vergogna collettiva di avere sopportato tutto questo, anno dopo anno, violenza dopo violenza, morto dopo morto, con vile indifferenza».
Unica resa
È sempre stato sé stesso, non ha mai nascosto nulla, né recitato parti, non si è preoccupato dei contesti o fatto intimorire dagli stadi: era quello con la visione appropriata – e spesso moderna anche se non vista –, gli sarà mancata la calma di Liedholm, ma aveva l’irruenza riflessiva di chi sa mettere in campo una squadra e togliersi delle soddisfazioni.
Non gli sono mancate le cadute. Al Napoli durò un mese, subentrando a Bartolo Mutti e trascinandosi dietro Giuseppe Giannini, ma era una brutta stagione (1997-98) e per una volta mollò dicendo: «Questa squadra non la salva nemmeno San Gennaro», e infatti retrocesse. Persino lui che aveva passato trent’anni a far rendere calciatori sotto ogni aspetto – tecnico, tattico, fisico e caratteriale – si arrese. Senza farne un dramma, conservando la sua estraneità al sistema.
Uno costruito da solo, arrivato con le sue gambe e la sua capacità in serie A, senza l’aiuto di nessuno, che non andava alle Maldive, ma trascorreva le vacanze ai bagni Nadia di San Benedetto; che ha avuto sempre la stessa moglie, Maria Pia, che lo aspettava per cenare e gli organizzava le interviste. Un allenatore che non ha mai confuso il gioco con la finzione.
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