- «Accordo per portare la pace in Afghanistan». Si intitola così il documento di quattro pagine firmato il 29 febbraio del 2020 a Doha, in Qatar, dagli Stati Uniti d’America e l’«Emirato islamico dell’Afghanistan che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come uno stato ed è conosciuto come i Talebani».
- Il documento si basa su quattro punti principali: disimpegno militare occidentale; garanzie per la sicurezza nazionale Usa; cessate il fuoco e impegno nelle negoziazioni infra-afghane; impegno a supportare la causa afghana nelle sedi internazionali.
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Non c’è nessun tipo di riferimento al futuro politico del paese, alla tutela dei diritti delle donne o a dei cittadini che per anni hanno lavorato con le forze di occupazione occidentali: l’Afghanistan viene lasciato al proprio destino.
«Accordo per portare la pace in Afghanistan». Si intitola così il documento di quattro pagine firmato il 29 febbraio del 2020 a Doha, in Qatar, dagli Stati Uniti d’America e l’«Emirato islamico dell’Afghanistan che non è riconosciuto dagli Stati Uniti come uno stato ed è conosciuto come i Talebani», come vengono definiti gli “studenti coranici”.
Un patto storico, raggiunto dopo anni di trattative, fortemente voluto dall’amministrazione dell’ex presidente Donald Trump e rispettato dal suo successore Joe Biden. Per portare avanti i negoziati, Trump ha fatto pressioni sul Pakistan per far uscire di prigione Abdul Ghani Baradar, capo politico dei Talebani, l’uomo più accreditato per assumere la presidenza dell’Afghanistan.
L’accordo di Doha è alla base del disimpegno militare statunitense nel paese centroasiatico. Ma anche del ritorno al potere dei Talebani, che il 15 agosto sono rientrati a Kabul, destando le preoccupazioni della comunità internazionale.
I quattro punti di Doha
Il documento si basa su quattro punti principali. Con il primo vengono stabiliti una serie di meccanismi di garanzia volti a impedire che l’Afghanistan diventi un paese d’appoggio per «qualsiasi gruppo o individuo» che minacci la sicurezza degli Stati Uniti o dei suoi alleati.
Il secondo prevede il cronoprogramma per il ritiro di tutte le truppe militari occidentali, statunitensi e non solo, dal suolo afghano.
Dopo il ritiro occidentale, sulla base che l’Afghanistan non diventi rifugio di gruppi terroristici, i Talebani si impegnano – e qui è il terzo punto – a prendere parte a delle «negoziazioni intra-afghane» con tutte le forze politiche del paese, tra cui quelle del governo della Repubblica islamica dell’Afghanistan, riconosciuto a livello internazionale.
Il quarto e ultimo punto riguarda un cessate il fuoco permanente, da «discutere ed implementare» nel corso dei colloqui intra-afghani sul futuro politico del paese.
«I quattro punti sono interrelati», è scritto, e «l’accordo sui primi due apre la strada per i secondi due». Leggendo il documento è quindi chiaro che, con il patto di Doha, gli Stati Uniti erano più interessati a tutelare la sicurezza nazionale propria e degli alleati, piuttosto che del futuro politico dell’Afghanistan.
Il ritiro, i prigionieri, le sanzioni
Sanciti i quattro punti alla basi del patto tra Stati Uniti e Talebani, il documento si divide in tre parti.
Nella prima sono specificate le tappe del disimpegno militare statunitense in Afghanistan: una riduzione progressiva dell’esercito fino a 8.600 militari nei primi 135 giorni dopo la firma, e un ritiro totale entro i successivi 9 mesi e mezzo. Un disimpegno militare definitivo: «Gli Stati Uniti e i loro alleati si impegnano a rinunciare alla minaccia o all’uso della forza contro l’integrità territoriale e l’indipendenza politica dell’Afghanistan o a intervenire nei suoi affari interni».
Oltre a questo, gli Stati Uniti si impegnano «a iniziare a lavorare immediatamente con tutti i più rilevanti attori coinvolti per un piano che preveda un veloce rilascio dei prigionieri politici e di guerra»: si tratta di 6mila persone, Talebani e non, da rimettere in libertà prima dell’inizio dei colloqui intra-afghani, previsto per il 10 marzo 2020.
Dopo l’inizio di queste trattative, gli Stati Uniti si impegnano anche a rivedere le sanzioni contro gli esponenti talebani, «con l’obiettivo di rimuoverle del tutto entro il 27 agosto 2020». Inoltre, gli Usa si impegnano a promuovere un’iniziativa simile con gli altri Stati membri del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
La sicurezza degli Stati Uniti
Nella seconda parte del documento c’è l’accordo tra Usa e Talebani per «prevenire che il suolo dell’Afghanistan venga utilizzato da persone o gruppi, tra cui al-Qaeda, che minacciano la sicurezza degli Stati Uniti e dei suoi alleati».
I Talebani si impegnano a mandare «un chiaro messaggio sull’impossibilità di utilizzo del territorio afghano» da parte di gruppi terroristici e «istruiranno i propri membri a non collaborare con loro». Inoltre, non dovranno permettere loro il reclutamento, l’addestramento, la raccolta di fondi o la semplice ospitalità, in Afghanistan. Questo significa anche il «non rilasciare visti, passaporti, permessi di viaggi o altri documenti» a persone che vogliono minacciare gli Stati Uniti o gli altri paesi occidentali.
Il riconoscimento internazionale
Gli Stati Uniti si impegnano poi a richiedere e supportare il riconoscimento dell’accordo con i Talebani da parte del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite.
Stati Uniti e Talebani si impegnano anche a cercare di avere «relazioni positive» tra di loro, così come si vuole che lo siano con «il nuovo governo islamico afghano che nascerà dagli accordi intra-afghani». Con questo governo, gli Usa si impegnano a cooperare economicamente per la ricostruzione e a non intervenire nei loro affari interni.
Nessun tipo di accenno al tipo di accordi che i vari attori afghani dovranno raggiungere nelle successive negoziazioni, sulla tutela dei diritti delle donne o sul destino dei cittadini che per anni hanno lavorato con le forze di occupazione occidentali: l’Afghanistan viene lasciato al proprio destino.
Le trattative sul destino dell’Afghanistan
Nel giorno in cui viene siglato l’accordo di Doha con i Talebani, il 29 febbraio 2020, gli Stati Uniti rilasciano una dichiarazione congiunta «per portare la pace in Afghanistan» insieme alla Repubblica islamica afghana, il governo riconosciuto dalla comunità internazionale. La dichiarazione ricalca i punti dell’accordo con gli “studenti coranici”: disimpegno militare occidentale, garanzie per la sicurezza nazionale statunitense e dei paesi occidentali, cessate il fuoco e impegno nelle negoziazioni con tutti gli attori con un ruolo nel paese – Talebani compresi – e impegno a supportare la causa afghana nelle sedi internazionali. Anche qui, nessun tipo di indicazione sul futuro politico della nazione centroasiatica.
Le trattative tra Talebani e governo afghano iniziano il 10 marzo 2020 e vanno avanti per quasi un anno e mezzo, senza risultati significativi: quando il primo maggio 2021 la gran parte delle truppe Usa lasciano l’Afghanistan e le milizie talebane iniziano la loro offensiva per occupare i territori smilitarizzati, non c’è ancora un accordo.
Gli incontri, anche questi tenuti a Doha, tra le due parti rivali continuano ad andare avanti, così come la marcia degli “studenti coranici” nel paese. E più avanzavano, meno interesse avevano a portare avanti i colloqui.
L’ultima dichiarazione rilasciate dai negoziatori è del 18 luglio scorso, quando i Talebani già occupavano quasi la metà dell’Afghanistan: «Le due parti si impegnano a continuare le negoziazioni ai più alti livelli fino a che un accordo non verrà raggiunto». Una frase che un mese dopo è stata smentita dai fatti, con i Talebani che hanno preso Kabul e il controllo del paese.
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