Esposizione (in replica) e degustazione (con sacchetto). Tanti piatti cinesi, molti altri di culture non contestualizzate
Viaggio a Malmö dove si può assaggiare il surströmming e l’hákarl, rispettivamente aringa e squalo fermentati
Ma, in realtà, i conati non arrivano. Perché il rifiuto di certi cibi ha una base genetica, ma si può anche imparare
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Il labbro superiore che si alza, il naso che si increspa, le sopracciglia abbassate e lo sguardo che scappa altrove. È praticamente certo che nelle ultime ventiquattro ore vi sia capitato almeno una volta di avere questa smorfia sul volto, segno inequivocabile che una delle nostre emozioni primarie si sia impossessata di noi: il disgusto. Nonostante cerchi di salvarci la vita con cadenza quotidiana, il disgusto è sempre stato il parente scomodo delle emozioni, visto solo come qualcosa da evitare a tutti i costi. Eppure, negli ultimi anni, a partire da una piccola città scandinava, qualcuno ha iniziato a interessarsene davvero.
Mi trovo a Malmö, in Svezia, dove dal 2018 esiste un museo interamente dedicato a questo argomento, visto dalla lente del cibo. Il Disgusting Food Museum è un posto in cui la linea tra scoprire nuovi cibi e il ritrovarsi a vomitarli, a giudicare dalle varie esperienze reperibili online, diventa davvero sottilissima. Sono arrivato fin qui solo per andare a vedere fino a che punto la creatività dell'uomo è stata in grado di spingersi pur di garantirsi qualcosa da mettere sotto i denti, anche quando il risultato sfida ogni buon senso gastronomico.
Il giorno prima del viaggio stavo per annullare tutto, iniziando a chiedermi se volessi davvero sottopormi a una sequenza di cibi capaci di farmi rivalutare il concetto stesso di commestibile. Già mi vedevo arreso dopo pochi assaggi, bloccato da odori e consistenze troppo estreme. Di cosa avrei scritto? Del mio fallimento? In realtà, pensandoci, non sono molte le cose che evito di mangiare perché mi provocano disgusto: tra queste rientrano quasi tutte le frattaglie, l'Estathè, il coriandolo (siamo un esercito, lo so) e poco altro. Eppure ero certo che questa esperienza mi avrebbe messo a dura prova.
Senza ritorno
Sono davanti al museo, consapevole che una volta varcata quella soglia non si tornerà più indietro. Appena entro vengo colpito dall'atmosfera, lontana da qualunque mia aspettativa. L'ambiente, spoglio e asettico, è inaspettatamente pervaso da un odore di cucina di casa, di ragù, che per un attimo mi fa dimenticare di essere appena entrato nel tempio dei cibi più disgustosi del pianeta. Me ne andrò senza capire la provenienza di quell'odore, e forse è meglio così.
Un addetto mi consegna il biglietto d'ingresso, stampato su un sacchetto di carta che mi viene detto potrebbe rivelarsi utile durante il tour, il sottinteso è già fin troppo chiaro, ma viene reso ancora più esplicito dalla parete dietro di lui, sulla quale è appeso un “vomit counter” : siamo a due giorni senza ripensamenti gastrici, mi chiedo come dovrei leggere questa informazione; è tanto o poco? Immagino che lo scoprirò a breve.
All'interno l'esperienza è divisa in due parti: esposizione e degustazione, in quest'ordine. E qui già arriva la prima delusione: la maggior parte dei piatti esposti sono solo delle riproduzioni in silicone. Razionalmente ne capisco la praticità, ma sul momento provo un senso di insoddisfazione, come se venisse a mancare il vero impatto dell'orrore culinario che stavo attendendo da giorni. Subito dopo noto che alcuni dei prodotti esposti mi sembrano assolutamente fuori contesto, eppure sono finiti qui, etichettati come i peggiori del pianeta. Davanti a una teca con all'interno del Roquefort, o meglio la sua replica plastica, noto di condividere il mio disappunto con una coppia di francesi.
Quasi a metà della prima parte, mentre cammino tra testicoli di toro e tarantole fritte, mi imbatto in una parete coperta di scatole di latta rosse e gialle, che sembrano uscite da un'installazione pop art. Scopro che quei contenitori, all'apparenza innocui, nascondono in realtà l'ingrediente che ha fatto rivoltare più stomaci nella storia del museo. Il surströmming, l'aringa fermentata tipica del nord della Svezia, il vero cibo da incubo presente a Malmö. Sono ancora lontano dal momento dell'assaggio, ma già inizio a sudare freddo.
Mi volto a guardare la gente già posizionata alla fase due. Pare che al momento nessuno si sta sentendo male. Poi mi giro verso le persone accanto a me e noto una complicità morbosa che ci lega. Tra pochi minuti saremo anche noi dall'altra parte, condividiamo tutti la stessa, dannata sorte.
Veloce e indolore
Finalmente mi avvicino al bancone, è arrivata la mia ora. Se avete mai sentito parlare di mindful eating , la tecnica che invita ad assaporare ogni boccone con calma e tutti i cinque sensi attivati, sappiate che questo non è il luogo ideale per metterla in pratica. Qui si ingoia alla velocità della luce, e alcuni lo fanno a naso tappato perché, scoprirò poi, molto spesso è più l'odore a nauseare del sapore in sé. Il menù del giorno comprende, tra gli altri: grilli croccanti con un piacevole retrogusto di frutta secca, formiche nere sorprendentemente acide, il famigerato durian con il suo odore ripugnante (ma dal sapore più gradevole), un sorso di succo di crauti polacco che sa esattamente di quello che promette e l'hákarl, cioè lo squalo fermentato islandese, con un odore di ammoniaca per nulla invitante, che però non è così persistente all'assaggio. Infine arriva lui, sua maestà il surströmming.
Ho scoperto solo in questi giorni un filone di video reazione fatte da persone che lo provano per la prima volta e, a riconferma di quanto dicevo sull'odore, tutti concordano nel ritenerlo l'aspetto più problematico, tanto che il prodotto si può vantare di essere stato bandito da alcune compagnie aeree e dall'aeroporto di Stoccolma, oltre ad aver causato, pare, lo sfratto di una persona in Germania, dopo che questi aveva lasciato una scatola aperta sulle scale del proprio condominio. Se il sapore risulta molto salato, pungente e acido, l'odore è quello di un corpo in putrefazione. “Purtroppo” per me, lo stesso addetto di prima, che, tra parentesi, ha sempre sfoggiato un incredibile sorriso professionale per tutta la giornata, di quelli che David Foster Wallace descrive benissimo in Una cosa divertente che non farò mai più , mi ha confessato che la latta era stata aperta da qualche giorno, quindi la maggior parte dell'odore terrificante era ormai scomparsa, la cosa che più mi spaventava non era poi così spaventosa, in fondo.
Ora, probabilmente sarà stato quello, probabilmente chi entra in un posto come questo sa bene che il gusto qui sarà una prova di resistenza più che un sincero percorso gourmand, probabilmente le dimensioni molto ridotte degli assaggi che vengono concessi al museo hanno aiutato, probabilmente se mi fossero stati serviti piatti simili a un ristorante avrei avuto la nausea per giorni, probabilmente sarò strano io. Probabilmente.
Eppure, se devo essere totalmente onesto, io di nausea non ne ho proprio provata, nemmeno per un attimo. Anzi, arrivato alla fine degli assaggi ho avuto la sensazione che mi mancasse un pezzo, qualcosa di più estremo da poter rifiutare, vittima, io, del masochismo benigno teorizzato dallo psicologo Paul Rozin, secondo cui una situazione negativa può venire spogliata della sua connotazione pericolosa, lasciando spazio alla sola eccitazione.
Basi culturali
Partendo dal presupposto che i racconti sul web siano tutti veritieri, è evidente che esistano persone molto più sensibili di me, e non mi spiego come mai. Rido al solo pensiero che esistano cose molto più “normali” che invece mi avrebbero provocato come minimo qualche conato. Ma questo, penso, è forse proprio il senso del museo: ogni esperienza è unica, perché il disgusto ha sì una base genetica, ma anche una culturale e acquisita, che per altro può variare nel tempo. Lo dimostra il caso delle varietà di carne : quando nel 1943 negli Stati Uniti iniziò a scarseggiare la carne, si mise in piedi una campagna, guidata dall'antropologa Margaret Mead, per iniziare a far apprezzare le interiora al palato degli americani. L'iniziativa ha avuto successo, e le persone si abituarono a mangiare cuore, fegato e trippa, come mai avrebbero pensato di fare prima.
Nel corso degli anni il museo si è anche attirato qualche critica, principalmente per il fatto di utilizzare la parola “disgusto” con troppa leggerezza, per descrivere alimenti estrapolati dal loro contesto culturale, quello di popoli su cui già ricadono degli stereotipi negativi. Questa operazione, secondo le critiche, rischierebbe di alimentare una certa forma di razzismo che in passato è servita a giustificare atteggiamenti di eurocentrismo e conseguenti reazioni violente come la pulizia etnica. Altri osservatori hanno fatto notare come sia curioso che il cibo cinese, in Occidente a volte additato come sporco e di bassa qualità, sia il più rappresentato del museo, con ben undici alimenti in mostra sui circa ottanta totali.
Tornato a casa, inizio ad approfondire le ulteriori possibili ragioni della mia minore sensibilità al disgusto e, con mia sorpresa, scopro l'esistenza di vari studi che correlano la tolleranza di questo a fattori psicologici e culturali legati alle convinzioni politiche. In particolare, le persone più conservatrici tenderebbero ad avere una risposta più forte agli stimoli sgradevoli, probabilmente per una maggiore inclinazione a ordine e sicurezza. Al contrario, quelle più progressiste sembrano esserne meno disturbate. Ora sono decisamente convinto: mamma, sono progressista, me l'ha detto un museo svedese.
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