Prima del Consiglio dei ministri è intervenuta una portavoce della Commissione europea per spiegare l’ovvio: «Tutte le misure devono essere conformi col diritto Ue e non devono indebolirlo». Per poi aggiungere che sui paesi sicuri in cantiere c’è l’ipotesi di creare una lista Ue così da evitare altri casi Albania. Ma ribadendo che gli standard della protezione internazionale per i migranti sono forniti dal diritto europeo.

Un suggerimento che pare non essere giunto a palazzo Chigi, che ha preferito andare per la propria strada: in serata ha approvato il decreto legge che rende norma primaria l’indicazione dei paesi sicuri per il rimpatrio, e non più secondaria, come lo era il decreto del ministro degli Esteri, di concerto con quelli di Interno e Giustizia, con cui finora è stato annualmente aggiornato l’elenco. Nella lista sono compresi 19 paesi, prima erano 22: cancellati dagli stati sicuri Colombia, Camerun e Nigeria.

Restano l’Egitto, la Tunisia, il Bangladesh e molti altri che di sicuro hanno ben poco. Il ministro Matteo Piantedosi ha spiegato anche il metodo di composizione dell’elenco: «Abbiamo ricompreso i paesi con il tasso del 20 per cento di riconoscimento di protezione internazionale. Peraltro questa previsione anticipa un regolamento europeo che entrerà in vigore nel 2026 fondato proprio su questo principio». Il ministro della Giustizia Nordio, invece, non si smentisce mai e torna all’attacco sei suoi ex colleghi: «La sentenza della Corte europea non è stata ben compresa».

La forzatura, dunque, è compiuta. E spingerà l’asticella del conflitto istituzionale ancor più in alto. Perché sarà questa la conseguenza del decreto legge di risposta alle decisioni del tribunale di Roma di non convalida del trattenimento di 12 migranti nei centri di detenzione. Un tentativo di porre rimedio a quella che il ministro della Giustizia Carlo Nordio ha definito «esondazione» giudiziaria, che altro non è se non l’applicazione in Italia di una sentenza della corte europea sui paesi sicuri di provenienza dei migranti.

La tensione è alta nel governo: il “modello” Albania vantato in Europa da Giorgia Meloni rischia di crollare ancor prima di entrare a regime. E se così fosse per l’esecutivo sarebbe un problema giustificare il dispendioso progetto: solo per la costruzione e la gestione delle struttura la spesa ha superato i 100 milioni, ma sfiorerà il miliardo nel corso degli anni.

C’è chi, come parte dell’opposizione, ha sollevato la questione di un possibile danno erariale.

Insomma, una materia da giurisprudenza che potrebbe trasformarsi in approfondimento da Corte dei conti, come chiesto da parte dell’opposizione.

Diritto e propaganda

Il decreto Albania è una pezza cucita di istinto sul disastroso buco dei centri per migranti costruiti tra Shëngjin e Gjader in virtù del protocollo firmato da Meloni e il premier albanese Edi Rama.

Una pezza, peraltro, utile solo a infuocare lo scontro tra maggioranza e magistratura. Come ha spiegato il professore Vittorio Manes sul Corriere della Sera, «la sentenza della Corte di giustizia europea è vincolante».

Manes sul decreto del governo aggiornato periodicamente alle realtà politiche dei vari paesi d’origine dei migranti, dice: «Se la normativa interna si fonda sulle più accreditate fonti sovranazionali è una strada percorribile, in ogni caso il giudice, a cui la Corte di giustizia ha assegnato l’ultima parola, potrebbe ritenere quella elencazione non corretta o non puntualmente aggiornata e decidere diversamente se ha documentate ragioni per farlo».

Il decreto è, dunque, l’ultimo atto di propaganda con l’obiettivo di indicare ai propri elettori l’ennesimo nemico regista di un fantomatico complotto ordito dalla magistratura.

Al di là del decreto appena firmato, circola un’altra ipotesi che in futuro potrebbe tornare utile al governo se la legge appena sfornata in Cdm dovesse servire a niente: spostare la competenza sui giudici di pace, come è stato fatto per i Cpr italiani. «Però dovrebbero togliere ai giudici togati tutta la materia dell’immigrazione», spiega un’autorevole fonte vicina al dossier. In quest’ottica va interpretato il tentativo di condizionare il tribunale di Roma attraverso le risposte rapidissime sulle richieste di asilo presentate dai 12 migranti spediti in Albania, rigetti notificati prima dei verdetti sulle convalide dei giudici capitolini. Il cambiamento di queste norme sarebbe comunque in contrasto con il diritto dell’Unione europea: l’asilo figura tra le materie di competenza dell’Ue, che persegue una politica comune, attraverso un sistema comune di asilo.

C’è infine un’altra ipotesi per il futuro: rendere vincolante il parere della commissione territoriale, che valuta le richieste di asilo, per i giudici chiamati a decidere sulla convalida del trattenimento.

Sarebbe «una forzatura enorme, che comunque i giudici possono disapplicare», dice l’avvocato di Asgi, Salvatore Fachile. Con uno scenario, quindi, che porterebbe alla Corte costituzionale, con tempi molto lunghi. Di certo la composizione della commissione permette maggiore garanzie per il governo.

È un organo amministrativo, nominato con decreto del ministero dell’Interno. Nell’ultimo anno c’è stata un’infornata di personale senza specifico concorso, proveniente da altre graduatorie. Vuol dire meno specializzazione in materie di immigrazione e della politica internazionale.

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