E adesso? Cosa significherà mai «calcio all’italiana»? Finché il Bayern Monaco chiamava Giovanni Trapattoni, era chiaro cosa cercasse. Spalle coperte e concretezza, l’artigianato difensivo della scuola tecnica italiana, i frutti della radice Nereo Rocco. Fino ancora a una quindicina d’anni fa, le telefonate in arrivo dall’estero avevano tutte la stessa richiesta: venite a insegnarci come si vince pensando prima a non subire gol.
È stata la trama di Claudio Ranieri al Leicester e di Antonio Conte al Chelsea, mentre prendeva il potere l’ideologia del possesso palla. Carlo Ancelotti ha vinto ovunque affrancandosene. Eppure, adesso, trovano un riconoscimento internazionale anche ceppi diversi, il calcio kloppiano di Gian Piero Gasperini e i massimi esponenti del Partito italiano guardiolisti. Dopo Roberto De Zerbi al Brighton, arrivano Enzo Maresca e Francesco Farioli.
E allora: cosa vuol dire «calcio all’italiana»?
Maresca, il sosia (ed ex vice) di Pep: la panchina del Chelsea senza passare dall’Italia
di Marco Ciriello
Appartiene ai piccoli Ancelotti che crescono, Enzo Maresca, e, anche se è stato allenato da Carletto, è figlio di Manuel Pellegrini e Pep Guardiola. Da calciatore fu vagocampista, nel senso che girava molto in campo e anche di più fuori dal campo. Ora da allenatore è uno da centrocampo democratico: tanto fraseggio, pallone a tutti, ma pochi tocchi e accelerazioni sui gol, spesso bastano tre passaggi per arrivare in porta, perché ha l’ossessione di abituare i suoi calciatori a dare e avere il pallone sul piede giusto che fa risparmiare tempo e favorisce la geometria.
E adesso che è diventato il nuovo allenatore del Chelsea – contratto di cinque anni, di grande fiducia – può guardare meglio e da più in alto la sua impresa: essere sopravvissuto alla Championship allenando il Leicester e dominando le 46 partite del girone infernale che è la seconda categoria inglese, con 31 vittorie (secondo miglior attacco della divisione con 89 gol e la miglior difesa con 41 gol subiti).
Oplà, e riecco la Premier League, dopo aver giocato un campionato che è peggio di Squid Game. Ha vinto con un 4-3-3 che diventava un 3-2-5 in fase di possesso, avendo due ali come Mavididi e Fatawu e in mezzo uno come il vecchio Jamie Vardy a finalizzare le azioni, e come giocatore chiave il regista offensivo Kiernan Dewsbury-Hall a fare l’İlkay Gündoğan di Pep, è così che il Leicester di Maresca è diventato quasi il City di Guardiola.
Ma ancora una volta da quel campionato – la Championship – Maresca ne è uscito come Superman, era già accaduto nel biennio 1998-2000, quando dal Cagliari andò al West Bromwich per poi farsi triangolare tra la Juventus – due volte – e il Bologna: «Se non avessi passato un anno e mezzo laggiù non sarei nemmeno arrivato alla Juve. È stata dura all’inizio: non sapevo e non capivo una parola, era un posto totalmente nuovo, ma laggiù, nel campionato inglese, mi hanno insegnato a non mollare, mi hanno formato il carattere: prima di partire non ero così. In più il fatto di giocare in una squadra piccola, meno prestigiosa di altre, di serie B, mi ha consentito di essere quasi sempre titolare. Non avevo mai giocato davanti a 40mila persone, con uno stadio sempre pieno a ogni partita. Credo sia una cosa che affascinerebbe qualsiasi ragazzo della mia età. In più mi chiamavano Superman: sotto la maglietta indossavo una canottiera con il suo stemma e la mostravo a ogni gol».
Maresca poi ha giocato in Spagna (Siviglia e Malaga) e in Grecia (Olympiacos), oltre a vagabondare da Verona a Palermo, è sempre stato un centrocampista di movimento, come lo apostrofò Emiliano Mondonico, uno che aveva il blink, la capacità di vedere le cose a istinto e prima del tempo. Il resto l’han fatto Vincenzo Montella che lo chiamò a Siviglia per avere un esperto della piazza, Manuel Pellegrini che gli fece fare il secondo al West Ham, e Guardiola che lo volle come collaboratore nella stagione dell’arraffatutto del Manchester City (2022-2023) avendolo visto allenare le giovanili del City nel 2020.
Insomma, Maresca che sembra Guardiola – parole, opere, ossessioni, tattica ed estetica calcistica e fisica: hanno lo stesso look da chansonnier – dopo aver fatto l’impresa a Leicester, si è meritato il Chelsea, dove già Vialli, Zola, Ranieri, Ancelotti, Di Matteo, Sarri e Conte hanno trovato tituli, gloria e biografia.
Maresca, partito dalla provincia di Salerno, ha imparato l’inglese guardando la tivù con il vocabolario quando era al WBA, poi ha imparato lo spagnolo ascoltando il flamenco, senza mai dimenticare la sua canzone preferita in napoletano: Yes I Know My Way di Pino Daniele. E sulla strada con Maresca ci sono Roberto De Zerbi che non ha ancora una panchina dopo aver tanto fatto parlare di sé col suo Brighton, e Francesco Farioli che dal Nizza è andato ad allenare l’Ajax.
Dei tre piccoli Ancelotti che crescono è curioso che solo De Zerbi abbia allenato in Serie A. Sembrano condannati a non giocare nei campi dei padri anche se ne indossano già le giacche. Ulissidi, per ora. Solo per ora.
«Divertirsi come i bambini»: la missione di Farioli nella casa dell’Ajax totale
di Piero Valesio
È in questo Ajax turbolento che Francesco Farioli è atterrato qualche giorno fa per prendere le redini della squadra e ritrovare le tracce di un’anima che pochi club possiedono, una religione laica che ha avuto in Johann Cruijff il suo profeta.
Per far uscire gli olandesi dalla crisi più profonda della loro storia, Farioli si trova a dover mettere a frutto la sua natura-nome di “filosofo”, un termine che gli appassionati di calcio non più di primissimo pelo ricordano essere stato appannaggio di Manlio Scopigno, il tecnico fumante del Cagliari campione d’Italia. Farioli filosofo lo è per davvero, nel senso che si è laureato con una tesi dal titolo “L’estetica del gioco e il ruolo del portiere”, relatore Sergio Givone, ordinario di Estetica all’Università di Firenze. Sono citati uno di fianco all’altro Messi, Dostoevskij, Buffon e Socrate.
Leggendo alcuni passi di quella tesi si comprende perché l’Ajax abbia scelto lui. Farioli scrive che «il sogno è il calcio sottratto all’idiozia calcistica, alla volgarità degli italioti, alla corruzione e all’inquinamento che minacciano di soffocarlo: un calcio concepito in armonia con altre attività, modalità e sfere dell’esistenza, ricondotto nuovamente alla sua fonte originaria, al suo essere gioco carico di avventura e al piacere provato dai bambini».
Ha allenato i portieri nel Sassuolo di De Zerbi, forse la figura centrale di questa new wave italiana. Se ne andò in Turchia perché alla sua età, 32 anni, in Italia non sarebbe stato possibile allenare, altro frammento di triste verità sul nostro paese. È decisamente poco italiano nel suo approccio al gioco. Guardiola è ovviamente il suo riferimento, così come Gasperini, Bielsa, Spalletti per la matrice toscana. Quando allenava l’Alanyaspor, le statistiche erano simili per possesso, occasioni e passaggi a quelle del Napoli dello scudetto.
Come capitò per Sarri a Londra, nella sua esperienza in Turchia e a Nizza è stato coniato il termine Farioli-ball, perché ha rotto il cliché del calcio italiano fatto di duelli e maglie strappate. Un italiano che crede nel calcio come divertimento, non come ossessione, il primo allenatore non olandese dai tempi del danese Morten Olsen. «Viviamo come giochiamo», ha scritto nella tesi, un riferimento a Huizinga e al suo dubbio, all’idea se per caso non fosse vero il contrario, se non «giochiamo come viviamo», principio teorizzato da Mario Sconcerti in Storia delle idee del calcio.
Ora a questo italiano anomalo il club del calcio totale chiede di ristabilire un’equazione fra uno stile di vita e i risultati sul campo. Crujff e Neeskens, Johnny Rep e Jongbloed erano sì i boys in piscina con le fidanzate durante i ritiri, ma anche calciatori capaci di scambiarsi i ruoli e dare spazio al genio. Sempre nella sua tesi di laurea, Farioli tratteggia la figura del guastafeste, quello che rompe il gioco perché viola la regola del «facciamo che», la norma assoluta dei bambini.
Il guastafeste è quello che distrugge il mondo fantastico riportando tutti sulla nuda terra. Perché non pensare che proprio il desiderio di riportare ad Amsterdam quella dimensione fantastica che fu sua e allontanare i guastafeste dei tempi recenti sia il motivo per cui Francesco Farioli da Barga è stato chiamato sulla panchina della squadra oggi più delusa d’Europa?
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