Ha un visto di ingresso in tasca, ma fino all’ultimo ha paura di non atterrare dall’altra parte.

All’aeroporto in Libia ci arriva di notte, quattro ore abbondanti prima della partenza. Ci sono ostacoli, anche il rischio di essere arrestato. Ma poi su quell’aereo di linea ci sale, Amal, e a Fiumicino il volo da Mitiga, Tripoli, arriva in perfetto orario. «No, il passaporto non ce l’ho. Ho questo», dice lui. La polizia di frontiera dello scalo romano lo ferma, chiama la questura, chiede informazioni e conferma, il giorno di Natale, per quello strano documento.

Amal ha diritto all’ingresso legale in Italia, e ce lo ha dopo una lunga battaglia giudiziaria. Cappellino bianco in testa, alto, elegante, si guarda intorno un po’ smarrito per poi sciogliersi dopo pochi passi negli abbracci di benvenuto delle avvocate di Asgi (Associazione per gli studi giuridici sull’immigrazione) e dei volontari e le volontarie di JL Project e Baobab Experience. È Natale, e questo è il suo regalo.

La storia

Amal non si chiama Amal e ha passato gli ultimi sei anni in Libia, tra centri di detenzione, fughe, vita nascosta. Viene dal Darfur, in Sudan, ha poco più di 30 anni, a Roma lo aspetta una sistemazione e appena riapriranno gli uffici, dopo la pausa natalizia, presenterà richiesta d’asilo.

Nel 2018 Amal è stato riportato in Libia insieme a oltre 270 altre persone dal mercantile Asso 29 con il sostegno dalle autorità italiane.

Il tribunale civile di Roma ha riconosciuto l’illegittimità di quella condotta, stabilendo il diritto di Amal a entrare in Italia. È il primo ad arrivare qui, dall’altra parte, di quel respingimento collettivo per cui a giugno il tribunale ha giudicato colpevoli i ministeri di Difesa e Trasporti, la presidenza del Consiglio, il capitano e l’armatore della nave della Augusta Offshore.

Un altro tribunale gli ha poi riconosciuto 15mila euro per i danni subiti: non sono ancora arrivati, la seconda causa è in corso, appellata dalle autorità italiane e dalla società armatrice.

Amal racconta di avere avuto un po’ paura, in volo: non aveva mai preso un aereo. Non ha una famiglia da raggiungere in Europa, ma un caro amico - lo chiama “fratello” - che vive in Italia e che sta cercando.

Viene dall'Africa subsahariana, evacuato, tanti anni fa, dal suo paese in guerra. Il viaggio che lo porta qui il giorno di Natale dura anni: a un certo punto decide di raggiungere l’Europa mentre la sua famiglia continua a spostarsi da un campo profughi all’altro. Passa per le violenze della Libia, i riscatti.

Sopravvivere a un naufragio in mare insieme a pochissime altre persone non rappresenta la fine delle sue sofferenze: è un mercantile battente bandiera italiana, l’Asso 29, a riportarli in Libia, intercettati e respinti illegittimamente con il «contributo logistico, di supporto e coordinamento fornito delle autorità italiane».

Le sentenze

Ginevra Maccarrone è una delle avvocate Asgi del collegio difensivo del caso di Amal. È all’aeroporto ad accogliere il richiedente asilo. Un arrivo che, «finalmente, rende effettivo il diritto di asilo sancito dalla Costituzione, sistematicamente violato dalle pratiche di respingimento nel Mediterraneo dove le autorità italiane, anche con la complicità di società private, ostacolano l’arrivo via mare di coloro che cercano protezione in Europa», dicono da Asgi.

La Asso 29 avrebbe dovuto «condurre i migranti in Italia». Portando le persone soccorse di nuovo nel paese da cui stavano scappando le ha esposte a torture, detenzione illegale, violenze di ogni genere e, in alcuni casi, alla morte.

Lo dicono molte sentenze, lo raccontano da anni segnalazioni e report inequivocabili di società civile e agenzie internazionali: la Libia non è un luogo sicuro in cui può concludersi un’operazione di ricerca e soccorso.

L’Italia, le autorità italiane, le navi battenti bandiera italiana devono «prevenire atti di tortura o trattamenti inumani».

La solidarietà

Amal «è il primo a ottenere giustizia», dice Sarita Fratini del JL Project, che con un crowdfunding ha finanziato il volo. Il progetto è dedicato a due altri respinti della Asso 29: Loni, che sul mercantile era ancora nel grembo di sua madre, e che invece che nascere in un ospedale italiano ha visto la luce sul pavimento di un lager libico. E a Josi, che in un lager libico è morto. Ora Amal è «il primo tra oltre seicento persone che il JL Project ha rintracciato e identificato come vittime di respingimenti illegali nei lager libici compiuti dal governo italiano. Il suo arrivo, oggi, è un meraviglioso inizio», dice Fratini.

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