- L’uso indiscriminato di antibiotici (in medicina e in veterinaria) è responsabile dello sviluppo di ceppi batterici sempre più difficili da curare.
- Nel 2021, i batteri resistenti agli antibiotici sono stati responsabili di circa 35.000 morti in Europa.
- Non sono in vista grandi novità terapeutiche nel campo degli antibiotici. La risposta alle resistenze non può che venire dall’uso consapevole e appropriato di questi farmaci importantissimi.
Ogni anno, intorno alla fine di novembre attendo con ansia il resoconto del network europeo per la Sorveglianza delle resistenze agli antibiotici (Ears-Net). Anche quest’anno, come peraltro temevo, le mie aspettative sono andate deluse.
Nonostante l’Italia abbia visto negli ultimi anni una lenta, ma progressiva riduzione nel consumo di antibiotici, resta sempre tra i paesi con la più alta percentuale di batteri resistenti. Ci giochiamo il gradino più alto del podio con Portogallo, Grecia, Romania e Polonia e distanziamo di diverse lunghezze i valori di Francia, Spagna, Germania e dei paesi Scandinavi.
Una china molto rischiosa
Purtroppo, siamo arrivati al punto in cui alcuni ceppi batterici resistono praticamente a qualsiasi terapia antibiotica e sono diventati una grave minaccia per la salute pubblica, causando in Europa diverse decine di migliaia di morti ogni anno.
Oramai tutti dovrebbero sapere che questo fenomeno è la diretta conseguenza dell’uso eccessivo e inappropriato degli antibiotici (in medicina e in veterinaria) che stimola nei batteri l’insorgenza di mutazioni genetiche rendendoli meno sensibili alla terapia.
Con l’esposizione prolungata di una popolazione alla terapia antibiotica, i ceppi batterici sensibili vengono progressivamente sostituiti da quelli resistenti e l’antibiotico in questione perde gran parte della sua efficacia.
In modo analogo a come la selezione naturale ha operato favorendo le giraffe dal collo più lungo che riuscivano a raggiungere i germogli sui rami più alti delle piante, così anche i batteri vengono selezionati in base alla loro capacità di adattarsi all’ambiente in cui devono crescere e riprodursi.
Questo fenomeno di mutazione e di selezione funziona particolarmente bene all’interno degli ospedali, dove il grande utilizzo di antibiotici aumenta la pressione selettiva e i ceppi batterici resistenti hanno più probabilità di essere trasmessi da paziente a paziente.
L’uso improprio sul territorio
È però altrettanto importante la prescrizione fatta dai medici del territorio che è responsabile per il 90 per cento dei consumi di antibiotico con una percentuale di inappropriatezza stimata tra il 25 e il 30 per cento.
Forse non è un caso che il rapporto di EARS-Net venga pubblicato poco prima dell’inizio dell’inverno.
Forse è un disperato tentativo dei suoi redattori per convincere i medici ad usare con parsimonia farmaci così importanti durante la fase epidemica dell’influenza. L’influenza infatti, insieme alle faringiti, alle otiti, e alle bronchiti acute è una delle cause più frequenti di prescrizione inappropriata di antibiotici. L’inutilità della prescrizione in questi casi è dovuta a due ragioni principali.
La prima è che nella grande maggioranza dei casi si tratta di infezioni virali, quindi per definizione insensibili agli antibiotici. La seconda, meno nota, è che le possibili complicanze (per esempio l’ascesso peri-tonsillare, la mastoidite, la febbre reumatica e altre meno note) interessano non più di 1,5 casi ogni diecimila soggetti con infezione delle prime vie aeree, senza che si siano riscontrate importanti differenze tra chi è stato e chi non è stato trattato con antibiotici. Questo a fronte ai 35mila morti che i germi multi-resistenti hanno causato in Europa nel 2021.
Il ruolo degli allevamenti
Circa il 70 per cento degli antibiotici viene utilizzato in medicina veterinaria, soprattutto all’interno degli allevamenti intensivi (di polli, maiali, bovini).
In questi allevamenti, dove la estrema vicinanza degli animali aumenta il rischio di trasmissione delle infezioni, l’uso degli antibiotici si è progressivamente trasformato da un impiego terapeutico, per trattare gli animali malati, ad un uso profilattico, cioè per evitare che gli animali si ammalino.
A volte gli antibiotici vengono addirittura mescolati ai mangimi, aumentando enormemente il rischio di sviluppare ceppi batterici resistenti che possono essere trasmessi anche agli uomini. Per fortuna non tutti gli allevamenti sono così e l’uso di antibiotici è in genere molto inferiore, o addirittura assente nei piccoli allevamenti dove gli animali sono liberi di muoversi all’aperto e negli allevamenti biologici.
Una patata bollente
A chi è in mano questa patata bollente? Le case farmaceutiche non sembrano molto interessate a produrre nuovi antibiotici efficaci contro i germi resistenti ai farmaci più vecchi.
Questo perché il costo del loro sviluppo è alto, mentre l’utilizzo atteso (da riservare all’uso ospedaliero nei malati gravi che non rispondono alle terapie abituali) è percepito come troppo basso.
Non resta dunque che ridurre nettamente il consumo degli antibiotici già disponibili, sperando che nel tempo questo eviti una ulteriore crescita delle resistenze.
Un meritorio proposito per l’anno che viene, cui si dovranno dedicare i medici, le mamme ansiose, i media e chiunque si occupi di educazione sanitaria (per non parlare degli allevatori). Chissà che a fine anno il prossimo rapporto di EARS-Net non ci dia finalmente qualche soddisfazione.
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