- Le alluvioni e le frane della Romagna sono state causate dalla crisi climatica ma amplificate da un territorio in cui la montagna più abbandonata del centro nord è collassata sul territorio più cementificato.
- L'adattamento richiesto dalla crisi climatica dovrà combinare ingegneria con ecologia, i fiumi dovranno avere più spazio naturale intorno, altrimenti faranno come in Romagna: se lo riprenderanno con la forza.
- Governi e amministrazioni locali devono superare la logica dell'emergenza continua e del commissariamento, ai territori serve la pianificazione di una nuova normalità. Le aree colpite non vanno ricostruite, vanno riprogettate.
«Questo territorio non va ricostruito, va riprogettato». In questa frase di Alessandro Liverani, tecnico forestale ed ex membro della Protezione civile, c’è tutto quello che non stiamo comprendendo di quanto accaduto a maggio in Romagna, a nessun livello, da quello regionale a quello del governo, un paese che ignora non solo la crisi climatica ma anche la sua geografia, prima dei disastri e anche dopo i disastri.
Quello in Romagna va diviso in due capitoli: le alluvioni in pianura, le frane in collina e in bassa montagna. Delle alluvioni si è parlato di più, per i 15 morti, per le immagini spaventose, per le decine di migliaia di sfollati e per il disastro economico. Ma è dalle frane che bisogna partire per avere un disegno d’insieme.
Il tetto bucato
Liverani è un tecnico forestale che è nato, vive e lavora a Modigliana, paese di collina in provincia di Forlì-Cesena. Da giorni ha smesso praticamente di dormire ed è impegnato sul fronte frane, dove ci sono paesi nei quali ormai si arriva solo a piedi o con l’elicottero.
«Su una provinciale che corre parallela alla via Emilia c’è una frana ininterrotta di nove chilometri, abbiamo case appese su versanti svuotati per centinaia di metri, è venuto giù tutto il bosco, montagne e colline sono collassate. La devastazione a Ravenna o Faenza è iniziata qui. Il fango si pulirà, le frane resteranno».
È stata una questione di gravità applicata all’idraulica, la forza dell’acqua sprigionata senza controllo a valle si era accumulata in altitudine.
I boschi non sono semplicemente suolo con sopra degli alberi, sono complessi meccanismi di regolazione idraulica: per renderla efficace però servono fossi, briglie, opere di contenimento per convogliare l’acqua nel reticolo idrografico naturale invece di scaricarla come un cannone di fango, legno e detriti dove vuole la forza di gravità. Tutto questo non è stato mai fatto.
Su questi territori si è smesso di fare manutenzione forestale da decenni, i boschi sono stati abbandonati a loro stessi, senza cura, senza prevenzione, senza opere che potessero regimare l’acqua e il fango e farli scorrere in modo meno pericoloso. Da Modigliana si vede tutto il paradosso dell’Italia: le montagne e le colline più abbandonate del centro nord sono crollate su una delle pianure più cementificate. «Se la pianura è ricca, ma la montagna è abbandonata, anche la pianura diventa povera. Questa regione è un condominio col tetto bucato».
La crisi
Questa è una storia di atmosfera e di suolo. L’atmosfera è quella di una crisi climatica in atto, che possiamo provare solo a frenare e mitigare prima che superi ogni limite di controllabilità. Il World Weather Attribution è attualmente al lavoro per provare una rapporto diretto tra emissioni di gas serra, riscaldamento globale e gli eventi dell’Emilia-Romagna a maggio.
Devono rispondere alla domanda: questo disastro sarebbe avvenuto allo stesso modo e nello stesso momento anche in un clima normale, con queste caratteristiche e questi tempi di ritorno (per Faenza di sole due settimane)?
Quello che oggi si può dire è che la quantità e la tipologia delle precipitazioni sono coerenti con quello che i modelli sulla crisi climatica prevedono. La Fondazione CIMA ha effettuato una prima analisi in cui si legge: «La magnitudo del fenomeno è stata causata da un fenomeno idro-meteorologico estremo. Un susseguirsi di piogge persistenti e continuative che hanno concentrato una massa d’acqua ben al di sopra delle medie registrate, che ha fatto sì che in poco tempo i suoli esaurissero la capacità di saturazione pur provenendo da un periodo estremamente siccitoso», aggiungendo che questa alternanza «è il tratto distintivo e più evidente del cambiamento climatico che osserviamo in questi anni».
Insomma, certo che è crisi climatica. Paolo Pileri, docente di pianificazione ambientale al Politecnico di Milano, è uno dei massimi esperti di consumo di suolo in Italia, uno che ha dedicato la sua vita e tutto il suo lavoro a questa battaglia, ma è il primo a dire che «il consumo di suolo non è la causa di quello che è successo, è stato solo un moltiplicatore degli effetti e dei rischi: se abbiamo un prato, su 100 mm di pioggia 90 si infiltrano, su asfalto 40 mm evaporano, il resto corre, aumenta di energia e si porta via tutto».
Questo è un mondo pericoloso, per via delle precipitazioni sempre più estreme e frequenti: noi ci abbiamo messo del nostro a renderlo ancora più pericoloso.
Cosa sono i fiumi
La cementificazione, che in Emilia-Romagna ha il terzo tasso più alto d’Italia, è solo una parte del problema. Fermarla con una legge nazionale seria, e non con le debolissime normative di cui si sono dotate Emilia-Romagna o Lombardia, è il primo tassello di una riprogettazione del territorio in pianura.
L’altro pezzo decisivo lo si vede in prossimità del problema: i fiumi, soprattutto il reticolo di quelli medi e piccoli esondati a metà maggio. Per Pileri, in Italia non riusciamo a renderli meno pericolosi perché non abbiamo ancora nemmeno capito cos’è davvero un fiume.
Detto meglio: applichiamo al governo del territorio un’idea di fiume scientificamente superata. Lo spiega così: «Un fiume non è solo un corso d’acqua. Un fiume è un corpo ecologico fatto di terra e acqua. Lo dice anche la direttiva acque dell’Unione europea, che risale al 2000. Un fiume è acqua, sponde e aree esondabili».
Un corpo complesso a cui servirà sempre più spazio perché, altrimenti, se lo riprenderà con la forza, come abbiamo visto due settimane fa e un mese fa. Non è una disputa filosofica, è un modo di vedere le cose che ha effetti pratici.
Il fiume visto esclusivamente come una faccenda idraulica e ingegneristica, come se fosse un tubo, lo si protegge rafforzando il contenimento fisico, alzando gli argini, costruendo casse di espansione e dighe. «È quello che abbiamo sempre fatto, i risultati li abbiamo visti», dice Pileri. Ma è questa la lettura proposta dal ministro della Protezione civile, Nello Musumeci, ed è questo il piano contro il dissesto su cui concordano governo e regione: dighe, bacini artificiali, invasi.
Piste da bowling
«Il difetto di una visione così ingegneristica, e lo dico da ingegnere che ha studiato per costruire argini, è che si basa sulle previsioni e le statistiche, ma il contesto di crisi climatica in cui ci troviamo rende imprevedibili gli eventi estremi. La cassa di espansione è una scatola per tenere l’acqua durante il picco di piena: ci illudiamo di contenere le alluvioni da crisi climatica se pensiamo di risolvere tutto solo così, mettendone qualche decina in punti strategici. Serviranno, ma solo se saranno parte di un disegno più ampio».
Lo spiega Andrea Goltara, ingegnere del Centro Italiano Riqualificazione Fluviale (Cirf), che da giorni, come molti altri pezzi della comunità di esperti italiani, sta provando ad aggiungere verità scientifica e complessità alla lettura semplicistica e dominante del momento, che poi è quella che ha dato forma a tutto il territorio romagnolo: controllare l’ecologia solo con l’ingegneria.
«Non è vero che una causa del disastro è stato un eccesso di sedimenti nei fiumi, a volte è vero il contrario, dipende dai casi e dai contesti. Il problema spesso è il deficit di sabbia, ghiaia e ciottoli, quei materiali li abbiamo prelevati ovunque ci fosse convenienza economica, senza un criterio ecologico, e abbiamo trasformato i fiumi in piste da bowling».
Discorsi simili: la vegetazione sulle rive, le nutrie, gli istrici, le organizzazioni ambientaliste locali. Ogni conversazione di questo tipo mostra che la prima cosa a mancare è la comprensione della complessità e della scala del problema.
Rinaturalizzare
La Romagna è il perfetto esempio di una geografia umana che non può resistere agli effetti di un clima sconvolto dalle emissioni di combustibili fossili. Il reticolo di fiumi è stato ingegnerizzato e canalizzato decenni fa, con argini alti, stretti e rigidi, perché serviva spazio per costruire.
I corsi d’acqua sono spesso pensili, sopra il livello della pianura. Ai fiumi è stato tolto spazio e quello spazio se lo sono ripreso.
Andrea Agapito Ludovici, responsabile acque del Wwf, fa l’esempio di Faenza: «C’era un muro di contenimento delle acque che è semplicemente andato giù e l’acqua si è riversata tutta in città. Erano opere maldestre già in condizioni normali, senza monitoraggi adeguati, spesso fatte di mattoni e cemento».
Tutta la storia degli oltre 20 corsi d’acqua esondati in pianura porta alla stessa risposta: ai fiumi serve più spazio naturale per allagare, quando succede, in condizioni più controllabili, allontanando gli argini, spostando se serve campi coltivati, fabbricati, case e capannoni, rinaturalizzando le sponde ovunque possibile.
Sono le soluzioni basate sulla natura di cui parlano non solo scienza e organizzazioni ambientaliste, ma anche istituzioni come Onu o Banca mondiale.
«Abbiamo compartimentalizzato troppo, alla pianura serve un mix di ingegneria ed ecologia. Lo stesso piano nazionale di adattamento ai cambiamenti climatici, quello non ancora approvato, non parla di dighe, né per la siccità né per le inondazioni. Dobbiamo restituire spazio ai fiumi», dice Goltara.
La rinaturazione delle aree fluviali non è un’utopia ecologista, c’è un piano del Pnrr per farlo con il Po, per il quale sono stati stanziati 144 milioni di euro, che andrà completato entro il 2026 e per il quale serviranno 350mila piante (che per altro al momento non si sa bene dove trovare).
Quel progetto andrebbe scalato anche sull’intreccio di fiumi più piccoli di territori come la Romagna, anche perché siamo l’unico grande paese europeo a non avere un piano nazionale di rinaturazione dei fiumi, che permetta alle aree circostanti di funzionare come delle spugne che trattengono acqua durante le piene, le rallentano e poi rilasciano nel momento di deficit idrico. «Recuperare zone umide e boschi intorno ai fiumi è un approccio sistemico, soluzione chiave a un problema che è sistemico», commenta Agapito Ludovici del Wwf.
Sul territorio
Altro tema delicato: la gestione commissariale, soluzione italiana passepartout per ogni emergenza. Come dice Pileri, «la manutenzione e la gestione dei corsi d’acqua deve funzionare come un orologio svizzero, con interventi che siano basati sul territorio, in Italia invece si fa la stessa pianificazione a Ravenna come a Treviso o intorno a Milano, bisogna ripensare l’organizzazione in base alle geografia, imparare a rispettarla».
La domanda a questo punto è chi sono i soggetti con le competenze per farlo: ogni persona interpellata per questo articolo concorda che gli unici ad avere una visione di insieme sono anche quelli con meno potere di azione: le autorità di bacino, le uniche che comprendono la scala dei problemi, che deve essere geografica e invece in Italia viene trattata solo in modo amministrativo, seguendo un’emergenza continua che non mette mai in condizioni di pianificare per quella che è una nuova normalità.
Prepararsi all’emergenza
Francesco Comiti è idrologo dell’Università di Bolzano, uno dei più ascoltati esperti italiani su questi temi. Ed è lui a offrire l’ultima cornice di cui abbiamo bisogno per capire il futuro. Anche in questo caso, è una cornice allo stesso tempo concettuale e pratica.
«Dobbiamo smettere di parlare di “messa in sicurezza”, non esisterà mai la sicurezza in un contesto di cambiamento climatico che alla base ti dà incertezza su tutto, dai tempi alle portate. C’è un rischio da gestire, a cascata, su tutto il territorio. Le casse di espansione possono servire in alcuni punti molto antropizzati ma si devono spostare gli argini ovunque possibile, non ci si può fidare di un solo tipo di intervento come se fosse la soluzione a tutto».
Quello che rimarrà, anche nello scenario ideale di un uso dei fondi rapido, efficace e capillare che mescoli ecologia e ingegneria, sarà comunque un rischio residuo, perché nei prossimi decenni il mondo aumenterà di temperatura e il clima diventerà ancora più instabile.
«Dobbiamo ragionare sul rischio di ogni singola abitazione, su ogni dettaglio, da come orientiamo le finestre rispetto alle piene a dove mettiamo muretti e paratoie, le case col tempo dovrebbero avere certificazioni di compatibilità idraulica ovunque ci sia un fiume».
Serviranno i sistemi di early warning invocati dall’Onu e servirà una massiccia campagna di educazione sui comportamenti, su cosa fare, su cosa non fare, quali sono gli errori che possono ucciderti quando c’è una piena che non è nella memoria muscolare delle persone.
Durante un terremoto non prenderemmo mai l’ascensore, allo stesso modo durante un’alluvione non si dovrà mai andare a spostare la macchina o attraversare un ponte, per nessun motivo, e questo non lo si ottiene con i divieti ma con l’educazione e la formazione, superando ogni forma di negazionismo, perché questo è un mondo dove l’acqua è diventata molto più pericolosa che in passato.
Tra una generazione, questo sarà un patrimonio di percezioni condiviso, ma non possiamo aspettare la prossima generazione per avere una popolazione preparata a un’emergenza che ovunque può rendere un fiume minaccioso quanto un vulcano o un sisma.
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