- Il professor Wilhelm Bloch, della Scuola dello Sport di Colonia, sostiene che ormai gli atleti usano gli antidolorifici “come se fossero Smarties”, anche a scopo preventivo.
- Le conseguenze per la salute minacciano di essere devastanti. C’è un grande equivoco sul fatto che che i concetti di salute e fitness siano sinomimi. E invece la fitness può essere sovente il cintrario e la negazione della salute.
- Il corpo dell’atleta è sempre più il luogo e l’oggetto dell’alienazione perfetta: una macchina da prestazione di cui l’atleta deve essere uno scrupoloso manutentore.
La quintessenza della società anestetica. Ormai il mondo dello sport professionistico consuma fin oltre l’osso i suoi veri e sempre più rari campioni. Che, per prolungare la vita sportiva utile, hanno ormai adottato per decreto farmacologico l’abolizione del dolore fisico.
Il professor Wilhelm Bloch, docente presso la Scuola dello sport di Colonia, specializzato in traumatologia sportiva ha lanciato l’allarme sostenendo che il ricorso all’antidolorifico avrebbe ormai oltrepassato la soglia della compatibilità.
Non si tratta più soltanto di trattare farmacologimente il dolore per mettere l’atleta nelle condizioni di affrontare la prova, ma si assume antidolorifico anche a scopo preventivo, come per scongiurare l’insorgere, o tenere a bada il degenerare, di una situazione a rischio.
In sintesi, per usare la metafora di Bloch, oggi gli atleti assumono antidolorifici come se fossero Smarties. Con gravi rischi per la salute. E con un’implicazione di fondo: queste pratiche non sono doping in senso stretto, ma in termini più ampi sono qualcosa che parecchio gli somiglia.
Vittorie e dolori
La galleria degli sportivi cui il discorso del professor Bloch fa riferimento è ben popolata. Il caso emblematico è quello del tennista spagnolo Rafa Nadal, che dal 2005 convive col dolore e ancora in occasione dell’ultimo Roland Garros, che lo ha visto vincitore, ha dovuto ricorrere a infiltrazioni al piede destro per essere in condizioni di scendere in campo.
Ma c’è anche Zlatan Ibrahimovic, che per sei mesi ha giocato senza un legamento crociato e per questo è andato avanti regolarmente con antidolorifici, raccontando il tutto via Instagram con toni da componimento epico. E poi c’è Thiago Alcantara del Liverpool, che ha giocato con un piede insensibile causa infiltrazione la scorsa finale di Champions League a Parigi contro il Real Madrid. Meritano di essere menzionati anche i casi di calciatori non più in carriera. Il più clamoroso è sicuramente quello del tedesco-croato Ivan Klasnic, ex attaccante che ha fatto causa ai medici del Werder Brema perché ritiene che l’eccesso di trattamenti antidolorifici sarebbe la causa dei suoi gravi problemi a un rene e alla conseguente necessità di sottoporsi a tre trapianti.
La trategia delle rimozione
Sia pure nella loro specificità, tutti questi casi descrivono bene un quadro culturale che elegge la strategia della rimozione, in luogo della cura, come soluzione al problema del dolore fisico inabilitante. Un uso della farmacologia che non ha nulla a che vedere con la tutela e il ripristino delle condizioni di salute, ma piuttosto con la coazione alla performatività. Con effetti infine nocivi per la salute stessa, poiché il deficit fisico non viene guarito ma anzi pesantemente peggiorato visto che su di esso viene caricato uno sforzo agonistico del massimo livello.
Come anticipato, tutto ciò non è doping in termini legali e regolamentari. Gli analgesici in uso presso gli atleti non rientrano nella lista delle sostanze proibite dall’Autorità mondiale antidoping (Wada), dunque chi li assume non si pone fuori dalle regole né sta cercando di alterare i risultati della competizione.
Tuttavia si tratta di una forzatura della condizione fisica che avviene farmacologicamente, dunque artificialmente. Il fisico dell’atleta non ha recuperato il pieno stato di salute, ma piuttosto ha messo fra parentesi il deficit grazie all’aiuto farmacologico. Il messaggio sociale che ne deriva è devastante. E ancor più devastante è la narrazione fatta dai media o dagli stessi protagonisti, improntata su una retorica dello sforzo supereroico e sul mito dell’abnegazione verso l’impegno agonistico, quando invece dovrebbero essere sottolineati l’altissimo grado di rischio fisico che deriva da una così azzardata manutenzione del corpo e la necessità di disincentivare qualsiasi tentazione di emulare tali pratiche.
La sopravvivenza dell’adatto
Alla base di questo quadro culturale sta un pericoloso equivoco: quello che accosta il concetto disalute a quello di fitness. Che è legato alla forma fisica, all’“adeguatezza”, all’“idoneità”. Cioè all’«essere nelle condizioni di affrontare la prova agonistica».
Ma in cosa consistono queste condizioni? Le diete antidolorifiche di Nadal, giusto per rimanere al caso più attuale ed eclatante, sono un perfetto esempio di divaricazione fra i concetti di salute e fitness. Ricorrendo alle infiltrazioni il fuoriclasse spagnolo del tennis si mette nelle condizioni “adeguate” per essere in campo il giorno X all’ora Y e per tutto il tempo di gara che sarà necessario. Dunque è “fit” in termini di performance.
Fa anche qualcosa di utile per ripristinare le condizioni di piena salute? No, perché nella migliore delle ipotesi il suo deficit fisico rimane intatto e dunque irrisolto. E nell’ipotesi più probabile quel deficit stratifica un ulteriore peggioramento. E di stratificazione in stratificazione quel deficit sarà a rischio di diventare irreparabile. Ma in campo, darwinianamente, sopravvive l’adatto.
Il corpo alienato dell’atleta
Si giunge così all’ultimo e più significativo grado della questione, relativo al rapporto alienato che nello sport, soprattutto a certi livelli, si instraura fra l’atleta e il suo corpo. Il più perfetto esempio di alienazione che sia dato immaginare.
Nel momento stesso in cui entra nella carriera agonistica d’alta prestazione l’atleta fa del suo corpo una macchina da performance. E di quella macchina egli è il manutentore. Questo provoca una scissione fra la dimensione personale e la dimensione corporea.
La macchina da performance va tenuta in condizioni di perfetta efficienza. Ciò comporta pesanti sacrifici nella vita personale e nelle pratiche quotidiane (alimentazione, socialità, gestione del tempo personale, tutti elementi trasformati in variabili dipendenti rispetto alla manutenzione del corpo-macchina da performance). La sfera corporea diventa così la dimensione del sacrificio e della rinuncia. Anche della sofferenza, che nel caso degli infortuni si trasforma in patimento raddoppiato causa pressione a recuperare il più in fretta possibile l’efficienza fisica. La fitness, appunto.
Perché lo sport è il più darwinista dei campi sociali, quello dove basta perdere una battuta per rischiare di perdere tutto. E allora l’atleta deve fare ogni cosa per rimettere a posto la macchina della prestazione. Perché così gli viene imposto anche da chi lo paga e non tollera tempi morti.
Qui si consuma il tratto più tragico dell’alienazione. L’atleta abusa del proprio corpo per renderlo fit, a scapito della salute. Quel corpo se lo vedrà restituire a fine carriera, come una macchina in condizioni da rottamazione e che invece deve andare avanti per il resto della vita post agonistica. Quando non basterà consumare antidolorifici come fossero Smarties per recuperare una vita degna d’essere vissuta.
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