Le sevizie anche in diretta video con i genitori per convincerli a pagare. Organizzazioni criminali che godono dell’impunità e sono gestite da personaggi legati all’esercito e alle istituzioni, come dimostrano le inchieste in corso
- La Libia non è un porto sicuro. Chi non è convinto lo chieda a Jaf, che porta sul corpo le ferite delle torture subìte tra Bengasi e Tripoli. «Ci appendevano a testa in giù e ci picchiavano con tubi o con armi», racconta.
- Dal banco dei testimoni Jaf ha risposto alle domande del giudice che lo ha sentito nell’ambito di un’indagine coordinata dal magistrato Calogero Ferrara della procura di Palermo. Ha risposto, tra le lacrime, e ha trovato la forza, quando gli è stato chiesto, di riconoscere i due torturatori del campo di detenzione in Libia.
- I genitori assistevano a questa atrocità in diretta video. Uno di loro, tale Soleman, non ce l’ha fatta: «Un altro detenuto, picchiato per vari giorni, è stato portato all’ospedale e loro sono riusciti a sapere soltanto che era morto».
La Libia non è un porto sicuro. Chi non è convinto lo chieda a Jaf, che porta sul corpo le ferite delle torture subìte tra Bengasi e Tripoli. «Ci appendevano a testa in giù e ci picchiavano con tubi o con armi», racconta. Sono trascorsi sedici mesi da allora, Jaf ora è un ragazzone di 25 anni. Ha affrontato un lungo viaggio dal Bangladesh.
Il 9 ottobre scorso ha pianto, dopo tanto tempo si è liberato dei demoni che lo perseguitavano dal giorno in cui ha deciso di emigrare: una scelta di libertà trasformata in una galleria di orrori e soprusi.
Dal banco dei testimoni Jaf ha risposto alle domande del giudice che lo ha sentito nell’ambito di un’indagine coordinata dal magistrato Calogero Ferrara della procura di Palermo. Ha risposto, tra le lacrime, e ha trovato la forza, quando gli è stato chiesto, di riconoscere i due torturatori del campo di detenzione in Libia.
Dopo di lui ha fatto lo stesso il compagno di viaggio e di lager, Sor. Pure lui del Bangladesh e sottoposto a violenze difficili da dimenticare. Storie che ne incrociano altre, dove un ruolo lo hanno avuto presunti militari libici e personaggi che operano tra istituzioni e criminalità.
Comprato a Bengasi
«Dal mio villaggio sono arrivato a Dubai e da qui a Bengasi, in Libia, in tutto ho pagato 4mila euro», ha detto Jaf, aiutato dall’interprete che per legge assiste nei tribunali chi non parla italiano. Sono stati i suoi parenti a versare il dovuto a chi aveva organizzato il trasferimento.
Dai racconti di Jaf e Sor emerge una rete internazionale di trafficanti: una piramide criminale, i basisti nei territori di origine, legati a gang che minacciano le famiglie, fino ai vertice dell’organizzazione in Libia. Dal Bangladesh all’Italia c’è un esercito di trafficanti, capi, gregari, soldati semplici e infine scafisti, che hanno il compito di traghettare i migranti in Europa attraverso il Mediterraneo.
Jaf racconta che quando sono arrivati a Bengasi, la città della Cirenaica controllata dall’esercito del generale Khalifa Haftar, «era insieme a tante altre persone, messe in fila indiana, gli hanno preso il passaporto e tutto, e poi sono stati portati in una casa dove, arrivando, c’erano già 50-60 persone». Gli uomini che lo hanno prelevato e portato nella casa a disposizione dell’organizzazione erano armati, sembravano soldati.
Il giovane ricorda perfettamente la casa, inaccessibile, sorvegliata giorno e notte da quelli che lui chiama «soldati». In altre indagini sui trafficanti di esseri umani condotte sempre dal magistrato di Palermo Ferrara emergevano altri dettagli di questi luoghi. Alcune foto agli atti di altri processi mostrano i depositi usati dai criminali usati per stipare la merce umana: nel protocollo dei trafficanti si chiamano «mezra», magazzini. Solitamente sono dislocati vicini alla costa e alle spiagge da cui partono le barche verso l’Italia.
Le lacrime
La testimonianza di Jaf sulla prigione libica è interrotta dal pianto del ragazzo. Giudice, pm e avvocati rispettano quel dolore. I frammenti del passato recentissimo fanno troppo male, sono tagli che provocano ancora dolori lancinanti. «Veniva picchiato ogni giorno», dice l’interprete al giudice, «e gli hanno detto che fin quando i suoi familiari in Bangladesh non gli avrebbero pagato la somma di denaro che gli avevano chiesto in un primo momento lui sarebbe stato picchiato tutti i giorni e, quindi, dopo qualche giorno i suoi familiari sono riusciti a pagare e dopo quattro giorni è stato trasferito in un’altra casa».
Qualche settimana dopo, arrivato nella zona di Tripoli del governo riconosciuto dalla comunità internazionale, i poliziotti lo hanno fermato. «La sera hanno chiamato di nuovo suo fratello e gli hanno detto di pagare una somma di denaro per liberarlo, ma suo fratello ha detto: perché dovremmo pagare questa somma di denaro dal momento che lui ha i documenti, sono giusti, e ha anche il visto per rimanere in Libia? E, quindi, la mattina seguente, verso le dieci, è stato portato da questi soldati in una macchina, quindi vetri oscurati, e lui pensava che lo stessero portando da suo fratello, ma non è stato così».
Così Jaf è arrivato in un’altra casa, circondata da molte altre. Da una di queste «sono fuoriuscite due persone, e gli hanno riferito che era stato appena comprato da loro e che doveva rimanere in questa casa fin quando non riusciva a pagare la somma di denaro da loro richiesta». Jaf è stato sequestrato e costretto a stare in un buco chiamato stanza, con altre sei persone.
Le torture
Nella banda che lo ha «comprato» dai poliziotti ci sono anche i due accusati dalla procura di Palermo di essere scafisti e torturatori: Harun e Sohel, indagati e riconosciuti durante l’udienza da Jaf e Sor. La nuova galera si trovava a Zuara, a ovest di Tripoli, luogo privilegiato per le partenze verso Lampedusa, quasi al confine con la Tunisia.
All’inizio, racconta Jaf, erano in cinquanta, poi sono diventati cento, ammassati come bestie. Ha ancora i segni sulle gambe, dice in aula davanti al giudice, «dove è stato picchiato, una volta l’hanno appeso sopra, a testa in giù...picchiavano nelle gambe con tubi di plastica e con le armi».
Legavano le mani e colpivano in ogni parte del corpo, anche i genitali, ogni parte tranne la testa. A Jaf sono caduti anche due denti per le botte sulle guance. Ai trafficanti i migranti servono vivi, altrimenti non incassano: umiliati ma vivi. Che tipo di armi usavano chiede il pm Ferrara: «Tutti i tipi», è la risposta. Poi Jaf mostra delle foto, sono mitragliette da guerra.
Lo picchiavano in stanza da solo, ma il più delle volte organizzavano una videochiamata con i suoi genitori in Bangladesh: per convincerli a pagare altri 6mila euro lo torturavano davanti ai loro occhi. «Una persona catturava il video e, invece, l’altro picchiava». I genitori assistevano a questa atrocità. Uno di loro, tale Soleman, non ce l’ha fatta: «Un altro detenuto, picchiato per vari giorni, è stato portato all’ospedale e loro sono riusciti a sapere soltanto che era morto».
In mare
Alla fine il fratello di Jaf è riuscito a mettere insieme la cifra richiesta. Il denaro l’ha consegnato in Bangladesh alla moglie di uno degli aguzzini di Zuara. Dopo qualche giorno Jaf e Sor sono stati chiamati fuori dal buco dove erano costretti a vivere e una macchina dai vetri oscurati li ha portati in una spiaggia. Il mare era mosso, Jaf e Sor non volevano imbarcarsi, avevano paura. «Siamo stati costretti», i trafficanti li avevano minacciati: avete solo due opzioni, gli hanno detto, «o salire sulla barca oppure ci avrebbero uccisi e buttati nel mare». Jaf continua a piangere, ma trova la forza di compiere l’ultimo atto della sua testimonianza: riconoscere i torturatori. Entrano in aula, Jaf li indica e li identifica. E piange, ancora.
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