Attilio Bolzoni racconta a Nello Trocchia di quel pranzo con il giudice Giovanni Falcone a Catania. Era il 1991, un anno dopo la mafia uccise Falcone e la sua scorta. Ma la strage doveva essere anticipata, proprio in quel giorno di sole, in quel ristorante davanti a un branzino e a una bottiglia di vino
Pubblichiamo un estratto del libro di Attilio Bolzoni “Controvento. Racconti di frontiera” edito da Zolfo editore (2023).
È lì a Catania, la mattina del 28 febbraio, come testimone dell’omicidio di quel galantuomo che era il procuratore capo Gaetano Costa. È davanti alla Corte di Assise, giura di dire «la verità tutta la verità», ricorda, spiega com’è nata la sua indagine su «Spatola Rosario + 21», l’origine del maxiprocesso.
Quando scende dal banco dei testimoni è un attimo, Ciccio La Licata guarda me, io guardo Felice Cavallaro, Cavallaro guarda Ciccio. Chi ci va da Falcone per invitarlo a pranzo? Ci ritroviamo a un passo dal giudice che intuisce al volo le nostre intenzioni.
«Sì, grazie, vengo: ma a due condizioni». La prima la conosciamo già senza che ce la comunichi – niente interviste – e perciò non battiamo ciglio. La seconda condizione resta misteriosa per qualche secondo. Chiediamo: «Quale è?». E lui: «Il ristorante lo scelgo io». Sarebbe finita con un’alzata di spalle, se non ne avesse subito fatto il nome: «Alle due meno un quarto al Costa Azzurra».
Lo guardiamo con stupore e Falcone fa un gesto molto siciliano con la mano che significa: «Tutto a posto». Ce ne andiamo un po’ storditi, il Costa Azzurra ha una delle migliori cucine di Catania, il luogo è incantevole ma era abitualmente frequentato dal boss Nitto Santapaola e, fra l’altro, il proprietario era stato sfiorato proprio dalle indagini di Falcone.
Perché lì? Quel «tutto a posto» è comunque per noi più di una garanzia. Arriviamo con largo anticipo a Ognina e prenotiamo un tavolo per cinque. Quando la prima auto blindata oltrepassa il cancello, il proprietario del ristorante, che è il Cavaliere Francesco Alioto, si irrigidisce. Quando dalla seconda esce Falcone, non crede ai suoi occhi. Cammina barcollando verso il magistrato, si esibisce in uno show di salamelecchi e ossequioso ci conduce nella grande terrazza.
È vuota. In fondo c’è solo un commensale, avanti con gli anni, porta lenti che sembrano fondi di bottiglia, alza appena il capo e poi subito lo ripiega sui ricci di mare. Lo riconosco, l’ho visto a qualche udienza, non mi ricordo come si chiama ma è uno degli avvocati dei Santapaola. Il Cavaliere Alioto, da perfetto padrone di casa, ci riserva l’angolo più luminoso e suggestivo della terrazza.
Ci sediamo e sul tavolo c’è la prima bottiglia. Siamo al branzino. Lui è al centro, intorno noi e poi Pietro Grasso. Con Felice e Ciccio ci lanciamo occhiatacce che trasportano una sola minaccia: il primo che adesso tira fuori il taccuino è un uomo morto. Ma siamo abbastanza navigati per non fare quella mossa maldestra proprio quando Giovanni Falcone, che ben ci conosce, decide che la prima condizione posta, e per suo volere, è già tacitamente caduta.
Parliamo sempre di paura, quella che ha avuto quando gli hanno messo l’esplosivo sotto la villa dell’Addaura, due anni prima. Le sue labbra fanno una smorfia, sussurra: «Io sono un siciliano. La mia vita vale quanto il bottone di questa giacca». E le sue dita cercano il bottone dorato della giacca blu. Ci vuole ancora vino (...)
Poi il giudice scompare dietro una vetrata. Noi corriamo in hotel. L’intervista che non voleva fare l’ha fatta. Ma uno scrupolo ci viene. Dalla stanza di Cavallaro lo richiamiamo. Risponde: «Che non siano più di due righe virgolettate». E ride ancora.
Le «due righe» diventeranno 120. Cominciamo a scrivere alle otto di sera, alle nove e trenta il «pezzo» è in pagina. L’indomani Falcone ringrazia da Roma.
Ma c’è una coda molto speciale a quell’intervista sulla terrazza di Ognina. Passano quindici anni e una sera, a casa, sfoglio distrattamente un settimanale. Mi soffermo su un ritratto di Pietro Grasso, che è procuratore nazionale antimafia. Ricorda il maxiprocesso, la sua vita blindata, tutte le volte che hanno tentato di ucciderlo. E, a un certo punto, dice: «Un giorno ero a pranzo a Catania con Falcone e tre giornalisti, i picciotti di Cosa Nostra erano appostati, pronti per approfittare dell’occasione ma non sono riusciti a trovare il loro capo Nitto Santapaola per avere l’autorizzazione per farci fuori tutti… ce l’ha rivelato un pentito di Cosa Nostra».
I picciotti non erano ancora muniti di telefoni cellulari e Santapaola chissà dov’era. Quando la tecnologia salva la vita. Quella sera resto impietrito davanti al racconto di Grasso. È molto tardi, lo chiamo lo stesso. «Ma come, non sapeva niente? È roba vecchia…». Chiamo Ciccio. E lui: «Ma come, non sapevi niente? Ti ricordi?, eravamo al Costa Azzurra con Giovanni Falcone…». Tutti sapevano, tranne me.
© Riproduzione riservata