Attilio Bolzoni racconta a Nello Trocchia di quell’intervista a Paolo Borsellino, quando aveva lanciato un violento atto di accusa sulle grandi manovre in corso in Sicilia, tra indagini arenate e uno stato che sembrava quasi aver gettato la spugna nel contrasto a Cosa Nostra. Un isolamento che avrebbe portato alle stragi di Capaci e via D’Amelio, per cui è stato condannato anche Matteo Messina Denaro, il superlatitante arrestato un anno fa
Pubblichiamo un estratto del libro di Attilio Bolzoni “Controvento. Racconti di frontiera” edito da Zolfo editore (2023). Le interviste video sono disponibili a questa pagina.
La lotta alla mafia? «I segnali non sono certo molto incoraggianti. Per almeno tre ragioni: il giudice Falcone non è più il titolare delle grandi inchieste che iniziarono con il maxiprocesso, la polizia non sa più nulla dei movimenti dentro Cosa Nostra, e poi, poi ci sono seri tentativi per smantellare definitivamente i pool antimafia dell’ufficio istruzione e della procura della Repubblica di Palermo. Stiamo rischiando di creare un pericoloso vuoto, stiamo tornando indietro, come dieci, venti anni fa».
Il procuratore capo di Marsala Paolo Borsellino lancia a sorpresa un violentissimo atto di accusa sulle grandi manovre in corso in Sicilia. Parla di indagini arenate, delle polemiche che avvelenano, oramai da mesi, il clima negli uffici investigativi e nei palazzi di giustizia di mezza isola, della riorganizzazione di Cosa Nostra e di uno Stato che sembra quasi aver gettato la spugna.
«Sì, la situazione è davvero pericolosa», spiega il procuratore che del pool antimafia faceva parte insieme a Giovanni Falcone, Giuseppe Di Lello, Antonino Caponnetto e Leonardo Guarnotta, «basti pensare a cosa sta accadendo nel bunker dell’ufficio istruzione… A Falcone, dopo tanti anni, hanno tolto la titolarità di quelle inchieste che gli vennero affidate dal consigliere istruttore Rocco Chinnici».
Il giudice Falcone quindi non è più il punto di riferimento delle inchieste antimafia?
«Fino a qualche mese fa tutto quello che riguardava Cosa Nostra passava sulla sua scrivania e su quella di altri tre o quattro giudici istruttori. Adesso la filosofia è un’altra: tutti si devono occupare di tutto e il consigliere Antonino Meli, dopo un tira e molla di qualche mese, è diventato il titolare dello stralcio del maxiprocesso.
C’è stato un taglio netto con il passato. Certo, anche Caponnetto era il titolare delle inchieste sui boss del bunker ma lui, quel processo, l’aveva costruito. Adesso dubito, senza mettere in discussione la bravura, l’onestà e la competenza di Antonino Meli, che il nuovo consigliere possa, in un paio di mesi, avere acquisito una tale conoscenza del fenomeno.
Un problema che molti si erano posti prima della nomina del nuovo consigliere istruttore… Si è arrivati a scelte sbagliate. Non intendo riaprire la polemica sulla nomina del consigliere Meli ma il problema era un altro: si doveva nominare Falcone consigliere istruttore non per premiarlo ma per garantire una continuità all’ufficio».
E invece… E invece, signor procuratore?
«E invece succedono cose molto strane. Ad esempio io sono il titolare di un’inchiesta sulla mafia di Mazara del Vallo. Un pezzo dell’indagine è a Palermo e un pezzo ce l’ho io. Ho scritto all’ufficio istruzione di Palermo per avere indicazioni su chi dovrebbe occuparsi dell’intera inchiesta. Non mi hanno mai risposto. Prima tutte le indagini antimafia venivano centralizzate a Palermo. Solo così si è potuto creare il maxiprocesso, solo così si è potuto capire Cosa Nostra ed entrare nei suoi misteri. Adesso si tende a dividere la stessa inchiesta in tanti tronconi e, così, si perde inevitabilmente la visione del fenomeno. Come vent’anni fa».
Perché questa inversione di rotta improvvisa?
«Tutto questo, senza fare dietrologie, si sta verificando in un momento di grande stanchezza, in un momento dove si credeva a torto che con il maxiprocesso la mafia era stata sconfitta, che tutto si doveva risolvere nell’aula-bunker. E così si è lasciato perdere tutto il resto».
Un mese fa il giudice Falcone ha lanciato pesanti accuse alle forze di polizia, oggi lei rincara la dose sostenendo che gli investigatori di Palermo non fanno più nulla.
«La situazione delle forze investigative è molto chiara: non esiste una sola struttura di polizia in grado di consegnare ai giudici un rapporto sulla mafia degno di questo nome. L’ultimo dossier di un certo peso l’abbiamo ricevuto sei anni fa, esattamente il 13 luglio del 1982. Ed è il rapporto su Michele Greco e centosessantuno boss della nuova mafia. Da allora, se si escludono alcuni lavori investigativi del reparto anticrimine dei carabinieri, c’è stato il vuoto, il vuoto assoluto. La squadra mobile di Palermo è investita da una bufera di polemiche, il suo poliziotto più rappresentativo, Francesco Accordino, è stato trasferito prima a Bressanone e poi alla polizia postale di Reggio Calabria».
Cosa è accaduto in questa struttura investigativa?
«Dopo l’uccisione dei commissari Cassarà e Montana la situazione è andata deteriorandosi rapidamente. Non capisco proprio cosa voglia dire adesso il capo della squadra mobile di Palermo Nicchi quando sostiene pubblicamente che sta lavorando per la normalizzazione».
Procuratore Borsellino, cosa sta succedendo invece nel pianeta mafioso?
«Io posso solo avanzare ipotesi perché non abbiamo notizie sicure. Oggi siamo nella fase della eliminazione degli alleati. Quando i Corleonesi presero la decisione di eliminare i vecchi capi storici della mafia siciliana, si allearono con una serie di clan. Adesso c’è un vero e proprio regolamento di conti interni».
Lei qualche giorno fa alla presentazione del libro La mafia di Agrigento in sintonia con Falcone ha ripetuto che il terzo livello mafioso non esiste. Cosa significa?
«Tutte le inchieste ci dicono che la mafia è un’organizzazione di tipo militare. Quando abbiamo trovato dentro Cosa Nostra rappresentanti del mondo politico o imprenditoriale ci siamo accorti che non ricoprivano mai ruoli di grande responsabilità. Sì, tanti personaggi politici si servono dei mafiosi o si scambiano favori con i boss. Ma questo è un altro discorso. Del resto anche Tommaso Buscetta fa intendere certe cose dicendo però che su quel fronte non vuole dire nulla, non vuole fare nomi».
Perché questo sfogo, perché ha deciso di uscire allo scoperto su un tema così scottante?
«Perché dopo tanti anni di lavoro, prigioniero nel bunker di Palermo, sento il dovere di denunciare certe cose. E anche perché non sono venuto qui a Marsala per isolarmi. Io sono venuto a fare il procuratore della Repubblica a Marsala per continuare a occuparmi di mafia, per lavorare qui ma lavorare contemporaneamente anche con Falcone a Palermo, con il giudice Fabio Salamone ad Agrigento, con altri magistrati a Catania o a Trapani. E invece tutto questo non sembra più possibile. Le indagini si disperdono in mille canali e intanto Cosa Nostra si è riorganizzata, come prima, più di prima».
“Controvento. Racconti di frontiera” di Attilio Bolzoni, edito da Zolfo Editore (2023, pp. 624). Attilio Bolzoni, giornalista, ha iniziato la sua attività al quotidiano «L’Ora» di Palermo. Per quarant’anni inviato speciale a «Repubblica», oggi scrive per «Domani».
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