Se fino a pochi anni fa i giocatori che facevano il salto tra i professionisti statunitensi erano coloro che non avevano più nulla da chiedere alla pallacanestro europea, ora non è più così. I talenti in erba vanno direttamente a sviluppare le loro qualità negli Stati Uniti. Al contrario, essere dei giocatori di medio livello negli Usa non è più una posizione da tenersi stretta a ogni costo
C’era una volta la seconda competizione per club di pallacanestro più importante del mondo, quella che vedeva scontrarsi i migliori team d’Europa, dalle rivalità sportive radicate e con i più grandi giocatori del vecchio continente a sfidarsi da portabandiera, fino ad assumere una grandezza tale da essere considerati dall’altra parte dell’oceano ed essere ingaggiati dalle franchigie della Nba, la terra promessa, il non plus ultra per ogni cestista.
Tanta acqua è passata sotto i ponti, e negli ultimi tempi il suo scorrere è stato ancora più rapido, con un cambio di tendenza sempre più pronunciato a modificare alcune peculiarità di quello che resta il torneo di basket europeo per eccellenza.
L’Eurolega è rimasta la seconda competizione per club di pallacanestro più importante del mondo. Vede ancora scontrarsi i migliori team d’Europa, dalle rivalità sportive mai sopite col tempo, anzi ancora più radicate. Ma il trend relativo ai giocatori è assolutamente cambiato: sui parquet delle più blasonate compagini del vecchio continente scendono ancora (quasi tutti) i migliori che si possano trovare al di fuori della Nba, ma il percorso che affrontano è diverso e diverse sono le conseguenze per il torneo.
Vietato aspettare
Se infatti fino a pochi anni fa generalmente i giocatori che facevano il salto tra i professionisti statunitensi erano coloro che non avevano più nulla da chiedere alla pallacanestro europea dopo gli anni passati per stabilizzarcisi ai vertici, ora non è più così.
I talenti in erba vanno direttamente a sviluppare le loro qualità negli Stati Uniti, selezionati neanche ventenni ai draft Nba e iniziando la fase da senior della propria carriera direttamente nelle franchigie americane, che da subito ne indirizzano il talento per risaltare nel proprio sistema (tanto regolamentare quanto di attitudine e di mentalità).
Con i migliori europei di sempre Dražen Petrović, Toni Kukoc, Dirk Nowitzki, Tony Parker e Pau Gasol a fare da pionieri sempre più convincenti, nella Lega non c’è più la voglia di aspettare ulteriori conferme prima di giovarsi del talento dei principali prospetti: con Luka Dončić a fare da eccezione che conferma la regola, i principali talenti dell’attuale Nba, da Giannis Antetokounmpo all’mvp in carica Nikola Jokić non hanno neanche mai giocato l’Eurolega.
O, come il francese destinato a essere un dominatore nei prossimi anni della Lega, Victor Wembanyama, ci hanno rinunciato dopo una fugace apparizione per potersi concentrare, nel corso dell’ultima stagione prima dello scontato approdo negli Stati Uniti, sullo sviluppo finalizzato solamente alla carriera oltreoceano.
Cavalli di ritorno
Al contrario, essere dei giocatori di medio livello negli Stati Uniti non è più una posizione da tenersi stretta a ogni costo per un cestista: anzi, un numero sempre maggiore di ragazzi preferisce essere protagonista in Eurolega, non accontentandosi di essere pesci piccoli in un grande stagno, ma preferendo essere pesci grandi in uno stagno non più percepito come infimo, anzi ormai non più così piccolo.
«Mi annoiavo a morte. Voglio della vera competizione, un posto dove posso essere me stesso. Sto voltando questa pagina senza rimpianti. Sono in pace con me stesso e con la mia decisione. Non vedo l’ora di vivere questa nuova pagina che si sta aprendo»: così si è espresso Evan Fournier, asso della nazionale francese tornato in Europa questa estate, acquisizione di livello visto quanto fatto vedere da una decade in nazionale e con un’età di 31 anni non così alta per non poter ancora trovare spazio nella Nba in cui ha trascorso gli ultimi 12 anni di carriera.
Poteva restare oltreoceano così come i Vezenkov, gli Osman, i Garuba, i Korkmaz, altri cavalli di ritorno notevoli di questa estate: e invece ha preferito una squadra simbolica del vecchio continente (l’Olympiacos), conscio dell’obiettivo stagionale di portarsi a casa il trofeo strappandolo ai rivali del Panathinaikos campioni in carica. E sapendo che non si ridurrà al loro dualismo la corsa verso il successo, con altre compagini dal nome altisonante attrezzate per il successo finale, dal Real Madrid al Barcellona, dal Fenerbahçe al Monaco, con le due italiane partecipanti, Olimpia Milano e Virtus Bologna, a voler essere tutt’altro che vittime sacrificali.
Un elenco che, a spanne, non può escludere davvero nessuna delle partecipanti (forse a eccezione di Alba Berlino e Asvel) a un torneo che vede il budget medio investito dalle diverse compagini in progressivo aumento, sebbene a fine stagione le spese restino superiori ai ricavi per il movimento: che, per quest’ultima condizione, vedrà l’introduzione dalla stagione 2027/2028 del salary cap e della luxury tax, ovvero il tetto agli stipendi e la salata tassa per chi lo sfori, capisaldi del sistema americano che si propone di mettere tutte le squadre in una stessa condizione di competitività.
Rinvigorire l’interesse
Certo, le zone d’ombra nell’applicazione di queste due novità e nella transizione di queste tre stagioni che porteranno alla modifica sono diverse, ma quello che resta chiaro è il significato di fondo: preservare con regolamentazioni ancora più stringenti la caratteristica che in questi anni più di tutti ha rinvigorito l’interesse verso l’Eurolega, rendendola stagione dopo stagione sempre più emozionante: la caratteristica descritta fedelmente dal motto che la accompagna da qualche anno, “Every Game Matters”, ovvero “ogni partita conta”, contraltare alla critica mossa spesso alla Nba, dove diverse gare della stagione regolare sono affrontate con meno trasporto dai giocatori e viste dagli addetti ai lavori solo come gare che, in vista di una migliore posizione al draft in proiezione futura, è meglio perdere.
Pensiero che invece è lontanissimo dalle varie partecipanti al torneo europeo: per poter alzare la coppa nelle Final Four a fine maggio, non si può lasciare nulla lungo il percorso e, nelle arene casalinghe sempre tanto calde così come in quelle in cui si è ospiti, ugualmente ostili, immergersi nella competizione così come i fan sfegatati, spesso in grado di creare atmosfere da brividi nel corso dei match.
D’altro canto, c’è una ragione se la colonna sonora caratteristica della competizione esalta un attaccamento al gioco quasi mistico, mettendo in risalto l’ormai celebre “Devotion”.
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