- Berrettini si è regalato il posto più ambìto del mondo, l’accesso alla partita delle partite di domenica 11 luglio, suonandole di santa ragione a un bel giocatore con l’anima fragile, Hubert Hurkacz.
- Più che un tempio, in verità, per il tennis italiano Wimbledon è stato un castello ostile, coi ponti levatoi tirati su. E quando il tennista dice, aprendosi nel suo sorriso disarmante, «penso di non averlo mai sognato, perché era troppo anche per un sogno» non si allontana dalla verità.
- Berrettini, mentre l’Italia era distratta dalla crescita dei suoi puledri Sinner e Musetti, ha preso la rincorsa da lontano. Ha vinto uno dei tornei più antichi del pianeta, il Queen’s. A Wimbledon, si è presentato con la rabbia in corpo.
Per rendere l’idea: nel 1976 due studenti californiani misero insieme nel disinteresse generale, con circuiti incollati in una scatola di legno, il primo computer da casa, l’Apple I. In quelle stesse settimane, Adriano Panatta fendeva l’aria di Parigi con la sua racchettina dall’ovale minuscolo e smontava, in finale al Roland Garros, il tennis da geometra di Harold Solomon. Sarebbe stato l’ultimo successo di un atleta maschio in un torneo dello Slam, anzi: l’ultima finale di un grande evento con un protagonista italiano. Matteo Berrettini, pure lui di Roma, figlio di famiglia di lavoratori, sarebbe nato vent’anni dopo quel pomeriggio di primavera.
Neanche un sogno
E quando dice, aprendosi nel suo sorriso disarmante, «penso di non averlo mai sognato, perché era troppo anche per un sogno» non si allontana dalla verità: non se si ragiona sul fatto che c’è voluto il tempo di saltare nel nuovo millennio e correrci dentro per altri 21 anni, prima di vedere un italiano in finale là dove chi mette piede sul campo lascia un’orma che è per sempre.
Più che un tempio, in verità, per il tennis italiano Wimbledon è stato un castello ostile, coi ponti levatoi tirati su. Quando ancora il gioco era diviso tra dilettanti e professionisti, cui era vietata la disputa dei tornei storici, Nicola Pietrangeli aveva accarezzato – era il 1960 – il traguardo della finale, ma per un paio di punti bislacchi si era dovuto piegare al genio mancino di Rod Laver. Da quel momento in poi, anche per questioni di cultura – in Italia si è giocato sempre sul rosso e spesso da fondocampo, non d’attacco come di regola sul verde – le due settimane londinesi hanno sortito rarissime giornate di gioia per i tennisti nostrani: un quarto di finale di Panatta nel 1979, da mangiarsi le mani per l’occasione persa contro Pat DuPré, e un analogo exploit di Davide Sanguinetti nel 1998. E basta.
Il posto più ambito
La contemporaneità ha stravolto anche i canoni del gioco sull’erba e ormai, a dispetto dell’orrore dei tradizionalisti (che hanno le loro sante ragioni) i prati di Church Road sono diventati giocabili anche senza servizio e volée, l’arte perduta di questo sport. E Berrettini si è regalato il posto più ambìto del mondo, l’accesso alla partita delle partite di domenica 11 luglio, suonandole di santa ragione a un bel giocatore con l’anima fragile, Hubert Hurkacz. Un polacco numero 18 al mondo, noto per aver battuto Sinner in finale a Miami qualche mese fa; un ragazzone dal tennis vario sebbene traballante sul lato del dritto. Competitivo e insidioso ma, francamente, non una roccia. Sufficiente per congedare un Federer mesto e vulnerabile nei quarti di finale ma non per arginare Matteo. Un ragazzo, Berrettini, dalla gentilezza e genuinità tanto sfacciate da lasciare straniti per il risvolto agonistico delle sue partite, in cui – per ubbidire al verbo del suo coach, Vincenzo Santopadre – deve essere «toro» e, all’occorrenza, «scafonare» (sic) col dritto, il colpo che sta lasciando solchi che pure per i giardinieri di Wimbledon rappresentano un cruccio.
Una rincorsa
Berrettini, mentre l’Italia era distratta dalla crescita dei suoi puledri Sinner e Musetti, ha preso la rincorsa da lontano. Ha vinto uno dei tornei più antichi del pianeta, il Queen’s. A Wimbledon, si è presentato con la rabbia in corpo di quella partita ceduta al Roland Garros, in lockdown notturno con interruzione feroce a rimonta in corso al numero uno del mondo, Novak Djokovic. E con il senso di rivalsa per non aver potuto disputare l’ottavo di finale in Australia contro Tsitsipas, a inizio stagione, per un beffardo infortunio ai muscoli addominali. Ha ammesso i suoi propositi, così stridenti con l’educazione di classe pseudo-oxfordiana: «Mi sono detto: quando torno, spacco tutto». È stato di parola. Nel 6-3 6-0 6-7(3) 6-4 della semifinale c’è il racconto di un match dominato ai quattro lati del rettangolo, macchiato da un paio di punti volati via così, e poi immediatamente ripreso per le corna, per non mollarlo più. Nelle due settimane di competizione, non ha mai rischiato di essere sopraffatto: ha ceduto tre set in sei partite.
Nessuna scusologia
Ciò che stranisce, per un paese tanto disabituato ai trionfi nel tennis maschile e aduso alla scusologia da aver raggiunto la soglia della rassegnazione, è la naturalezza con cui Berrettini si è fatto largo nel tennis dei grandi. Come se ci fosse sempre stato. E la totale riluttanza a indulgere in atteggiamenti vittimisti o autoassolutori: se vince, vince per merito suo. Quando ha perso, è stato per colpa sua o perché l’altro è stato più bravo. Se è stanco, o ha paura, o nutre dubbi, non lo dà a vedere. E se c’è un pertugio per conquistare la vittoria, anche con quelle spalle da guardia d’onore del Quirinale, si può star certi che farà di tutto per passarci attraverso.
«Scoppia e lotta», gli ha detto coach Santopadre qualche settimana fa, prima che Matteo andasse vicino a trascinare al quinto set il padrone della baracca, Djokovic. Fai scoppiare la palla col servizio (oggi 22 ace, quasi 9 punti su 10 vinti con la prima palla in campo e nessun turno di battuta ceduto all’avversario) e combatti su tutti i punti, qualunque cosa succeda, qualunque punteggio compaia sul tabellone verdegiallo che ha fatto scorrere nei decenni i nomi degli dèi del tennis: Borg, McEnroe, Becker, Edberg, Sampras, Federer. Missione compiuta.
Ha imparato dalle sconfitte
Per raggiungere quel terreno consacrato che si chiama Centre Court, domenica, Matteo Berrettini passerà sotto un’epigrafe firmata da Rudyard Kipling e tratta dal suo poema “If”, “Se”: «Se riuscirai a incontrare il trionfo e il disastro, e saprai trattare questi due impostori allo stesso modo». Il bello è che lui ha saputo, merce rara dalle nostre parti, imparare dalle sconfitte. Non dimenticare da dove è arrivato, quando i soldi bastavano appena per il biglietto aereo verso un torneino sconosciuto a Dio e ai santi; investire su se stesso, non accontentarsi, prendersi rischi sviluppando un gioco aggressivo e non subito redditizio.
E adesso, che sembra non essere più capace di perdere neanche nelle cattedrali dello Slam, fa passare per ordinarie cose che ci eravamo dimenticati potessero accadere. Un italiano in finale a Wimbledon: basta dirlo per sentir tremare le vene ai polsi ma, questa volta, tocca davvero a lui. «E se riuscirai in tutto questo, ed è quel che più conta, sarai un uomo, figlio mio». Chiude così, nel verso non citato a Wimbledon, Kipling: come se lo avesse conosciuto, il nostro Matteo.
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