- L’alcol, soprattutto a causa delle sue esternalità negative, è entrato nel dibattiti pubblico con sempre maggior frequenza.
- Per limitare il consumo di alcol o eliminarlo del tutto sempre più consumatori trovano una valida soluzione nel consumo di birra, vino e super alcolici senza alcol.
- La storia del birrificio Athletic Brewing, nato nel 2017 e oggi tra i primi 20 produttori degli Usa è rappresentativo del successo che questo nuovo settore sta avendo.
Negli ultimi mesi una molecola più di tante altre è stata presente nella discussione pubblica. Una molecola che, secondo alcuni recenti studi, ci accompagna sin dalle origini della nostra civiltà e che avrebbe contribuito a renderci ciò che siamo.
Una molecola prodotta da una reazione senza la quale, forse, non avremmo sviluppato il linguaggio e la scrittura. La molecola della quale sto parlando è l’alcol etilico, formula chimica CH3CH2OH. Gli studi sono molti. I più famosi sono quelli di Patrick Edward McGovern, direttore del laboratorio di Archeologia biomolecolare dell’Università della Pensylvania, che sostiene che la necessità di produrre bevande fermentate e quindi alcoliche, sarebbe stato uno dei principali motivi che spinsero i nostri antenati ad abbandonare la vita da raccoglitori e cacciatori erranti e a scegliere di stabilirsi in un luogo coltivando e allevando.
Coltivare cereali, secondo questa teoria, avrebbe consentito a donne e uomini di quei tempi di avere a disposizione materiale da sottoporre a fermentazione ogni qual volta lo desiderassero, senza dover attendere che un frutto cadesse per terra e iniziasse a marcire diventando leggermente alcolico (si stima che in una banana matura ci possano essere fino a 0,04 g/l di alcol etilico).
La necessità
Questa necessità di produrre alcol, secondo molti studiosi della materia, ha origini antiche. Secondo l’ipotesi nota come della scimmia ubriaca, per esempio, tra i motivi che incentivarono i nostri antenati primati ad abbandonare la vita sugli alberi per scendere a terra ci sarebbe stata anche la ricerca di frutti in fermentazione caduti a terra. E questo antico rapporto con l’alcol avrebbe avuto due conseguenze.
La prima è una modifica occorsa quasi 10 milioni di anni fa al gene ADH4 che ha comportato lo sviluppo di un enzima, la alcol deidrogenasi, che ci consente oggi di digerire l’alcol 40 volte più velocemente di qualsiasi altro animale, evitandoci sbronze colossali anche per poche molecole di alcol ingerite.
La seconda, più difficile da dimostrare, ma sostenuta, per esempio, da Adelheid Otto, archeologa all’università Ludwig-Maximilian di Monaco di Baviera, è che la presenza nelle bevande fermentate di vitamine del gruppo B e di altri nutrienti avrebbe avuto un contributo decisivo nello sviluppo del linguaggio, delle religioni e più in generale della società contemporanea.
Ecco, sebbene l’alcol conviva da sempre con noi, negli ultimi mesi se ne è parlato molto più del solito soprattutto per via di una sua caratteristica non particolarmente amata da politica e associazioni di categoria, ma purtroppo arcinota e, ormai, acclarata: l’alcol fa male. Come riportato, per esempio, sul sito dell’Associazione italiana per la ricerca sul cancro, infatti, l’alcol è un agente cancerogeno di tipo 1, il che significa che è tra le sostanze in grado di provocare un cancro.
I problemi
Questa sua caratteristica, oltre ai problemi legati all’ebrezza causata da un suo consumo eccessivo, hanno portato sempre più persone a scegliere di limitare o eliminare del tutto la presenza di bevande alcoliche dalla loro dieta.
Una scelta che ha aperto la strada al mercato delle bevande analcoliche che, pur presenti sottotraccia da decenni, non si erano mai davvero affermate come invece è avvenuto negli ultimi dieci anni. Tra queste bevande quella che senza dubbio ha fatto osservare i numeri più interessanti è la birra.
La birra analcolica (e a basso contenuto alcolico) cresce ormai ininterrottamente da diverso tempo e secondo le stime dell’Iwsr (l’International wine and spirits record, il principale database sulle bevande alcoliche) continuerà in questo trend anche in futuro. Nel 2022 il valore complessivo delle bevande senza o con basso contenuto di alcol (in molti paesi del mondo sono considerati analcolici prodotti con lo 0,5 per cento di alcol, in Italia questo limite è più alto e arriva al’1,2 per cento) nei 10 principali mercati (Australia, Brasile, Canada, Francia, Germania, Giappone, Sud Africa, Spagna, Regno Unito e Stati Uniti) ha superato gli 11 miliardi di dollari (erano 8 nel 2018) e la birra è il driver principale di questo evidente e repentino incremento dei consumi.
La Germania continua a essere il mercato principale - nella nazione tedesca la birra analcolica ha una lunga storia, iniziata nel 1972, che, pur con fortune alterne, ha trovato il favore di un elevato numero di bevitori - ma anche Stati Uniti, Francia e Regno Unito hanno consumi sempre più elevati. Gran parte dei bevitori, il 41 per cento, come osserva sempre l’Iswr, consumano anche alcolici ma optano per la versione low alcol o free se in condizioni in cui è preferibile o vietato assumere alcol o, semplicemente, per rallentare il ritmo in serate o momenti dove tradizionalmente si tende a esagerare.
Superare un limite
Una delle storie che meglio esemplifica questa tendenza è quella dell’americano Athletic Brewing Company, birrificio fondato nel 2017 da Bill Shufelt e oggi al quindicesimo posto nella classifica dei produttori craft americani. Shufelt prima di dedicarsi alla produzione di birra analcolica aveva deciso, per motivi di salute, di eliminare l’alcol dalla propria dieta. Ben presto si accorse che nella nuova condizione, durante una qualsiasi serata tra amici, i prodotti a lui dedicati erano piuttosto limitati in numero e tipologia ed erano rappresentati soprattutto da succhi di frutta o zuccheratissime bibite.
Le birre analcoliche esistevano ovviamente, ma la loro qualità era talmente bassa da disincentivarne il consumo. Nasce da lì la voglia di provare a creare una birra che pur senza alcol non escludesse il piacere della bevuta. Gli inizi, racconta Paolo Bouquin, che in Athletic Brewing è il responsabile per lo sviluppo del mercato europeo, furono tutt’altro che facili: dei 200 investitori contattati prima del 2017 nessuno pensò che la birra analcolica potesse davvero avere un futuro, ma non solo, nemmeno i birrai sembravano volersi confrontare con un prodotto che era considerato di bassa qualità e con scarse possibilità di invertire questa tendenza.
Poi all’improvviso le cose cambiarono. Arrivarono gli investitori e un birraio, John Walker, che si era fatto conoscere per aver vinto molti premi con i birrifici per i quali aveva lavorato. Il successo di Athletic Brewing fu da subito repentino: grazie anche a un accordo con un’importante catena di supermercati, nel giro di pochi mesi il progetto si dimostrò redditizio e costrinse Shufelt e Walker ad aprire due nuovi impianti di produzione in California e in Connecticut.
La gamma di Athletic Brewing, oggi, è del tutto paragonabile a quella di un qualsiasi birrificio artigianale con Ipa, golden ale, stout, sour alla frutta. La sola differenza sta nel contenuto di alcol che nelle birre di Athletic è inferiore allo 0,5 per cento stabilito dalla legge. Per arrivare a questo risultato Walker ha messo a punto un complesso processo, brevettato e quindi non noto, fatto di diversi passaggi che rendono le sue birre difficili da distinguere dalle versioni con alcol.
Al di là di quella impiegata da Athletic uno dei principali motivi dell’incremento nei consumi di birre (ma anche di vini e di superalcolici) analcoliche è da cercare nell’evoluzione subita dalle tecniche di produzione di birra analcolica - fino a pochi anni fa limitate alla dealcolizzazione attraverso osmosi o evaporazione sottovuoto - che consentono di eliminare l’alcol senza perdere complessità aromatica e tattile.
In Italia, dove il consumo di birra è piuttosto limitato (con poco più di 37 litri pro capite all’anno siamo in fondo alle classifiche), il settore analcolico è ancora lontano dai numeri visti altrove, eppure sono sempre di più coloro che guardano con interesse a questa fetta di mercato che sarà nell'immediato futuro con buona probabilità sempre più ampia e ricercata anche da noi.
Tra questi ci sono ovviamente le grandi aziende – Asahi, che detiene il marchio Peroni punta ad avere il 20 per cento di produzione analcolica entro il 2030 – ma anche piccoli produttori artigianali. È di pochi mesi fa, per esempio, il lancio di una birra analcolica da parte di Baladin, mentre lo scorso anno era stato il Birrificio Salento a presentare due birre senza alcol. Piccoli passi che aprono a nuovi scenari nei quali si potrà godere di qualche bicchiere in più senza pensarci troppo.
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