Carlo Alberto dalla Chiesa comincia a conoscere la Sicilia dal suo ventre, in una delle sue tane più mortali. Da un anno e mezzo è scomparso il sindacalista Placido Rizzotto, il segretario della Camera del Lavoro di Corleone. L’indagine del capitano dalla Chiesa per la prima volta fa emergere il nome di un uomo che diventerà famoso: Luciano Liggio.
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata sul generale Carlo Alberto dalla Chiesa ucciso quarant’anni fa il 3 settembre del 1982.
Dai primi giorni del settembre 1949 Carlo Alberto dalla Chiesa è in Sicilia, in una squadriglia del Comando Forze Repressione Banditismo.
È a Corleone, capitale di mafia. Viene a sapere della nascita di Nando mentre è su una jeep, di notte, in perlustrazione nelle campagne. Vede suo figlio, per la prima volta, nel febbraio successivo. In foto. E lo prende in braccio quando ha già nove mesi.
Il capitano dalla Chiesa non ha ancora trent’anni. In quella sua prima permanenza a Corleone viene contagiato per sempre dal «mal di Sicilia», una nostalgia degli odori e degli umori dell’isola, i contrasti della terra, la dignità ma anche le
incoerenze dei suoi abitanti.
Corleone è nelle mani di Michele Navarra. È il medico condotto. È l’ispettore della cassa Mutua e Malattia. Il direttore sanitario dell’Ospedale dei Bianchi. Il presidente dell’Associazione dei Coltivatori Diretti. Il fiduciario del Consorzio Agrario. È il capomafia.
Carlo Alberto dalla Chiesa comincia a conoscere la Sicilia dal suo ventre, in una delle sue tane più mortali.
Da un anno e mezzo è scomparso il sindacalista Placido Rizzotto, il segretario della Camera del Lavoro di Corleone. L’indagine del capitano dalla Chiesa per la prima volta fa emergere il nome di un uomo che diventerà famoso: Luciano Liggio.
Più che un mafioso mi sembra un gangster. Spaccone, esibizionista, poco siciliano. Lo vedo per la prima volta dal vivo molto tempo dopo l’omicidio di Placido Rizzotto. Sono passati quasi quarant’anni.
Luciano Liggio è rinchiuso in una gabbia dell’aula bunker dell’Ucciardone, al maxi processo. È il 1986.
Se ne sta tutto il giorno a rigirarsi in bocca un enorme sigaro cubano. Indossa un cappotto nero con il collo di pelliccia. Si agita, parla tanto, interrompe i giudici della Corte di Assise. Gli altri detenuti non lo degnano di uno sguardo.
Una volta racconta qualcosa che non dovrebbe raccontare Ricorda il tentato golpe fascista del principe Junio Valerio Borghese e di come la mafia voleva dargli una mano. Ma poi si ferma.
«Statti mutu e fatti ù carcerateddu», stai zitto e fai il carcerato tranquillo, gli mandano a dire i nuovi capi di Corleone.
Lui, il mito del crimine degli Anni Sessanta, non conta più niente.
Non è più nessuno
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