I boss attraverso una perizia compiacente possono ottenere riduzioni di pena, proscioglimenti, sospensione dei processi e scarcerazioni, i mafiosi utilizzano la follia, e chi sa diagnosticarla, come viatico verso l’impunità e come medicina per curare la loro malattia professionale: il carcere
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni, a cura dell’associazione Cosa vostra. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata a Trame, festival dei libri sulle mafie di Lamezia Terme, con 15 articoli sui temi al centro degli incontri del Festival.
Michele Senese era pazzo. Raffaele Cutolo era pazzo, diceva di avere una malformazione al collo per cui quando qualcuno lo prendeva alla gola, uccideva senza rendersene conto.
Umberto Ammaturo, il nemico di Cutolo, aveva perizie psichiatriche in cui c’era scritto che parlava con i muli.
O’ pazzo è stato il soprannome di Michele Zaza, Vincenzo Mazzarella e Nino Santapaola. Nunzio Di Lauro, il figlio di Paolo detto Ciruzzo o’ milionario, lo chiamavano o’ nevrastenico.
Quasi tutti quelli della banda della Magliana erano pazzi.
L’aula bunker dell’Ucciardone, durante i giorni del Maxi Processo istruito dal pool antimafia di Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello, Giovani Falcone e Leonardo Guarnotta, sembrava un ambulatorio del medico della mutua. Vincenzo Sinagra entrava in camicia di forza, Salvatore Ercolano si cuciva la bocca con ago e filo.
All’alba del processo sulla trattativa Stato e mafia, Totò Riina e Bernardo Provenzano hanno provato a essere pazzi, ma non ci sono riusciti. Dopo qualche tempo, Provenzano ha perso ogni contatto con la realtà ma non gli hanno creduto.
I finti pazzi sono tanti perché la psichiatria non è una branca di certezze. Non esistono TAC o risonanze magnetiche che chiariscano se una persona sia affetta, per esempio, da un disturbo psicotico.
Non c’è finto pazzo senza vero indottrinatore
Non c’è vera indottrinazione senza gli psichiatri.
Non che quello di psichiatra sia un mestiere più corrotto rispetto ad altri: gli psichiatri che firmano consulenze di comodo sono come gli ingegneri che progettano i bunker per i latitanti. È che i boss fanno di tutto per predare le professioni da cui capiscono di poter trarre vantaggio. E poiché attraverso una perizia compiacente si possono ottenere riduzioni di pena, proscioglimenti, sospensione dei processi e scarcerazioni, i boss utilizzano la follia, e chi sa diagnosticarla, come viatico verso l’impunità e come medicina per curare la loro malattia professionale: il carcere.
L’immagine mediatica dello psichiatra è particolare. Da un lato, una figura un po’ troppo filosofica per essere medica e un po’ troppo medica per essere filosofica. Dall’altra, un professionista dai contorni ambigui.
Al di là della rappresentazione ironica, per esempio nelle riletture del rapporto fra psichiatra e paziente nei film di Woody Allen, lo psichiatra è spesso descritto a tinte fosche. Questo risponde a un immaginario che lo considera – sul tema ci sono molte ricerche scientifiche che lo confermano – come una persona piena di problemi, inefficace, manipolatore, poco etico, un po’ bizzarro.
Cesare Lombroso, per esempio, nei romanzi, è raccontato quasi più per le sue competenze esoteriche che per quelle criminologiche. Hannibal Lecter è addirittura un cannibale. Peraltro il suo fascino si fonda su un errore: lui è l’antisociale per antonomasia e un antisociale non prova empatia. Eppure Lecter prova empatia per Clarice.
Peter Teleborian è lo psichiatra della saga di Stieg Larsson. Quella di Uomini che odiano le donne. É lo psichiatra manipolatore che strumentalizza la malattia mentale per avere un tornaconto personale, l’uomo cerniera fra legalità e illegalità. Firma la perizia psichiatrica su Lisbeth Salander, la protagonista della saga. Pur di metterla a tacere, la costringe a farmaci di cui non ha bisogno e alla contenzione meccanica.
Fra gli psichiatri di carta, Teleborian è fra quelli che meglio descrivono il rapporto fra follia e potere. Un rapporto che si è declinato anche nella realtà.
Franco Ferracuti era agente della CIA, consulente del SISDE, il vecchio Servizio Segreto civile, uomo della P2. È stato lo psichiatra del Comitato di esperti nei giorni del sequestro di Aldo Moro. Fu convocato al Viminale da Francesco Cossiga a poche ore dalla strage di via Fani. Aveva il compito, insieme ad altri colleghi, di rileggere sul piano psicologico i comunicati dei brigatisti e le lettere del Presidente. Una rilettura che divenne un boomerang. Si disse: «Moro non è più Moro», «Moro non è più presente a sé stesso», «Moro ha la sindrome di Stoccolma», una condizione per cui, più o meno consapevolmente, i sequestrati empatizzano con i sequestratori. La sindrome di Stoccolma divenne un parafulmine per la politica. Servì a stabilire che, se Moro fosse uscito vivo dal covo dei brigatisti e avesse detto cose imbarazzanti per la politica, quelle dichiarazioni sarebbero state detonate a mezzo di follia: «Le ha dette perché era impazzito».
Il nostro Teleborian è stato Aldo Semerari
Se provassimo a identificare gli psichiatri più brillanti della storia d’Italia negli anni ’60 e ‘70, dovremmo citare per forza anche Aldo Semerari e Franco Ferracuti. Il problema è il ruolo che hanno svolto in alcune trame della coscienza sporca del nostro Paese.
Semerari è stato amico di avvocati e camorristi, psichiatra di fiducia del tribunale di Roma e della banda della Magliana. Secondo alcuni era vicino a Licio Gelli, anche se non aveva la tessera della P2. Frequentava la Libia di Gheddafi, era il consulente di Luciano Luberti, il boia di Albenga, di Luciano Liggio e di Pino Pelosi nel processo per l’omicidio di Pier Paolo Pasolini. Un giorno un invito a casa di un magistrato, il giorno dopo al matrimonio di Renato Vallanzasca. È stato uno di quelli che ha attraversato la storia sottotraccia, quasi in apnea. Bolscevico prima, neonazista poi. Massone, grande vecchio dell’eversione. Uno che non si è visto mai e che ogni tanto riaffiorava in momenti insospettabili, sempre con un piede dentro e uno fuori. Un personaggio che ha tenuto insieme i misteri del Paese per il solo fatto di esserci stato. Anche solo sullo sfondo, senza che questo si sia trasformato in un reato o una condanna giudiziaria. Strage di Bologna, omicidio del giudice Mario Amato, sequestro Cirillo, faide di camorra, Piano Solo, golpe Borghese, intrighi politici, depistaggi di Stato e traffici d’armi.
Dopo tre giorni di sequestro, il cadavere di Semerari fu ritrovato con la testa sul sedile di un’auto e il corpo nel bagagliaio. L’auto era sotto casa del braccio destro di Raffaele Cutolo.
Oggi non è più il tempo dei tragediatori clienti di Semerari. Oggi le pantomime della banda della Magliana e di Raffaele Cutolo sono merce rarissima. Non c’è più chi crede di essere Napoleone, chi si mette a pescare in cella al passaggio della polizia penitenziaria, chi entra nel centro clinico del carcere e dice al medico: «Oggi mi sono svegliato e parlavo tedesco».
Italian Psycho descrive il modo attraverso cui queste simulazioni si sono affinate, è un viaggio lungo il confine che separa psicopatologia e scelta consapevole di uccidere, rapire, programmare stragi. Italian Psycho è il racconto di come e perché la follia è entrata così spesso nelle vicende più disgraziate della storia d’Italia. Di come, proprio attraverso la follia, è stato possibile difendersi dai processi e non nei processi, delegittimare collaboratori di giustizia, reprimere la dissidenza.
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