È “la voce del padrone” quella che si deve sentire, che deve risuonare attraverso il lessico e la pragmatica, riaffermando continuamente gerarchie. Una voce che, in ragione dei rapporti di forza chi sta sopra e chi sta sotto, viene spesso interiorizzata anche da chi la subisce, e vista e vissuta come l’unica possibile
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tratteremo il tema del caporalato e del lavoro che diventa schiavitù, arricchendo padroni e padroncini.
Lo sfruttamento del lavoro è bulimico. Fagocita tutto il possibile e poi lo rimette sotto forma di rifiuto masticato dalla sua fame di potere e di profitto. Vale per la terra, i prodotti agricoli, lo stato di diritto, la dignità delle persone e delle imprese oneste. Vale anche per le donne, soprattutto quando sono immigrate e braccianti. La Ong WeWorld ha prodotto per la campagna #OurFoodOurFuture un'importante inchiesta sullo sfruttamento agricolo delle donne immigrate. A leggere le interviste raccolte si prova disgusto e rabbia. Soprattutto quando si ascoltano donne che raccontano di essere state sfruttate, ricattate, denigrate e a volte di aver pensato al suicidio.
Akhila, ad esempio, è una bracciante di origine indiana. È sposata e lavora in un'azienda tra le province di Latina e Roma: «...Io, come anche altre donne, non parlavo italiano e all'azienda questo non piaceva. I capi decisero di imporci l'uso dell'italiano durante l'orario di lavoro, ossia anche per dieci o dodici ore al giorno, e se trasgredivamo, ossia se iniziavamo a parlare nella nostra lingua d'origine, ci multavano. La multa era di 10 euro per noi lavoratrici immigrate e 20 euro se invece a trasgredire erano le donne che avevano messo a capo delle squadre di lavoro. Forse era un modo per abbassarci ulteriormente la paga, oppure per subordinarci. Non lo so. Io sono stata multata diverse volte, soprattutto nei primi mesi. Quando lavori per 40 euro e dieci ti vengono tolti perché hai parlato nella tua lingua di origine con una tua collega connazionale, ci resti male. Lavorare in agricoltura è molto faticoso e anche pericoloso e parlare la nostra lingua non dovrebbe essere un problema. È la nostra cultura».
Il controllo attraverso le parole
Un assimilazionismo razzista propedeutico al controllo padronale delle lavoratrici che è certo nuovo. Federico Faloppa, professore ordinario presso l'Università di Reading (Gran Bretagna) di Storia della lingua italiana e Sociolinguistica nel Dipartimento di Lingue moderne, fa una riflessione importante sul linguaggio padronale: «gli stilemi linguistici in uso dei ‘padroni’ e dei caporali sono gli stessi che troviamo nelle città, sui treni, nelle stazioni di polizia, in molte delle nostre conversazioni: al/alla bracciante-migrante ci si rivolge con “tu” (ma da lui/lei si pretende il “lei”), magari chiamandolo/a con nomi italianizzati – se il suo nome è troppo difficili da pronunciare, ammesso che si voglia fare lo sforzo di ricordarlo – o con soprannomi che ne esaltino un particolare fisico o un tratto culturale distintivo, oppure con espressioni che ne mettano in luce l’acquiescenza, l’obbedienza, il rispondere all’immagine gerarchizzata che noi abbiamo di lui/lei (“è proprio un bravo lavoratore”, detto di qualcuno che lavora moltissimo senza lamentarsi mai, perché si presume che non abbia il diritto di farlo, e che debba essere grato per il carico di lavoro che gli è ‘concesso’…): un’immagine che – scriveva Albert Memmi ne Il colonizzatore e il colonizzato – a forza di essere ripetuta viene interiorizzata anche dalla persona sfruttata, che in un rapporto di forza estremamente sbilanciato ambisce a rispecchiare e ad adeguarsi a ciò che lo sfruttatore pensa di lui/lei, alle sue aspettative e ai suoi giudizi. E non si tratta solo di etichette lessicali, o di modalità pragmatiche (il “tu”), ma dell’imposizione di un intero sistema linguistico, se è vero come è vero che spesso la sola lingua usata (nei campi, nelle aziende agricole) è l’italiano – o una varietà regionale di italiano – anche se i parlanti italiani sono un’esigua minoranza. Un’imposizione che passa anche per l’interdizione a usare altre lingue, le quali – pur essendo altamente funzionali al lavoro in contesti dove le competenze in italiano dei lavoratori sono basse (e quindi pur essendo potenzialmente vantaggiose in termini di produttività) – sarebbero pur sempre codici altri per i padroni, che verrebbero così tagliati fuori dal flusso delle informazioni e dalle dinamiche di interazione e solidarietà tra i loro braccianti. Senza contare il diffuso pregiudizio che le loro lingue siano difettive, espressioni di ‘razze’ inferiori (come spiega Andrea Moro in La razza e la lingua. Sei lezioni sul razzismo). È “la voce del padrone” quella che si deve sentire, che deve risuonare attraverso il lessico e la pragmatica, riaffermando continuamente gerarchie (anche attraverso il linguaggio non verbale: si pensi alle espressioni facciali, alla postura, alla prossemica) e rafforzando la frattura tra “in-group” e “out-group” attraverso l’imposizione dei codici. Una voce che, in ragione di quei rapporti di forza, viene spesso interiorizzata anche da chi la subisce, e vista e vissuta come l’unica possibile in quello come in altri contesti gerarchizzati, e che è certamente stata interiorizzata anche dalla società che dei sistemi di produzione padronali ha fortemente bisogno perché su essi si regge (e con essi legittima i propri livelli di consumo), e non da oggi».
Esiste infatti un quadro storico di questo processo che non si deve dimenticare. Roberto Lessio, imprenditore agricolo nel settore biologico e già assessore all'ambiente del Comune di Latina, intervistato da WeWorld, afferma: «...quando andavo a lavorare in altre aziende intente nelle raccolte stagionali (cocomeri, meloni, uva) al fine di raggranellare qualche soldo per mantenermi gli studi all’Università, ogni mattina intere carovane di donne in età lavorativa (dai 12 anni in su) venivano riversate nei campi. Venivano trasportare e stipate con mezzi fatiscenti e provenivano tutte dai paesi dei Monti Lepini limitrofi all’Agro Pontino. In tutte le fasi colturali degli ortaggi, nella raccolta e nella selezione della frutta è ancora oggi così. È cambiato il luogo d’origine, ma solo in parte”. E sulle varie forme di ricatti e violenza? Ancora Lessio dichiara di essere “stato testimone di sistematici e gravi episodi di misoginia per i quali ho anche rischiato delle colluttazioni fisiche con i responsabili. Erano e sono tutt’oggi gli stessi presunti imprenditori senza scrupoli di cui parlavamo prima. Sono stato anche testimone di donne che non si sono più recate a lavorare piuttosto che continuare a farsi trattare in quel modo”. Marta Bonafoni, consigliere regionale, è tra le più attive in Regione Lazio contro questi crimini: “Nelle campagne, pontine e non solo, assistiamo a una progressiva femminilizzazione della manodopera, il cui sfruttamento interseca le questioni di genere peggiorando ulteriormente le condizioni delle lavoratrici. Come Regione Lazio vogliamo essere al loro fianco con programmi di sostegno e supporto legale e psicologico che garantiscano a queste donne un percorso di emancipazione e di riscatto e costituendoci parte civile nei processi». Un necessario passo in avanti per non lasciare solo chi denuncia i propri sfruttatori.
La storia di Irina
La storia di Irina, anche questa raccolta da WeWorld, è ancora emblematica: «Io ho lavorato in alcune azienda - dice Irina in un ottimo italiano - dove non potevo portare con me il cellulare e questo per impedirmi di fare foto e video durante la giornata lavorativa o registrare un audio mentre i caporali e i padroni urlavano contro noi o ci offendevano...Un altro esempio sono le giornate in busta paga. Te ne segnano sempre poche. Magari lavori venticinque giorni ma ne segnano solo dieci. Non è giusto. Questo vale in particolare per le donne immigrate come le indiane che non capiscono l'italiano e non conoscono le leggi. Ho visto colleghe indiane lavorare anche 30 giorni al mese e averne in busta paga solo 5 o 6».
Irina alza improvvisamente lo sguardo. Prende fiato e gli occhi le diventano lucidi. Inizia a parlare con rabbia della sua esperienza più dura: «Mi son sentita una schiava, senza più personalità, nonostante io sia una donna forte. Non mi faccio gestire facilmente eppure erano arrivati ad annientarmi. Ho rischiato anche di morire. Pensa che siamo passate dal fare il lavoro di raccolta degli ortaggi attraverso 5 squadre composte da 14 persone ciascuna, uomini e donne, a 5 squadre da 4 donne...Ho avuto un esaurimento nervoso molto grave per colpa del padrone e del caporale...E se sei una donna è anche più grave perché ti fanno scontare tutto, se ne approfittano perché ti considerano più debole e quindi più sfruttabile...Tutto questo solo per coltivare e raccogliere i loro prodotti che significa per loro soldi a palate e per noi invece problemi e povertà...Siamo schiave anche se viviamo in un paese democratico. Per me alcuni padroni sono come Stalin o Hitler e guarda che io so ciò di cui parlo. Sono nata in un paese dove c'era la dittatura e io ero in piazza contro quel regime per conquistare libertà e giustizia. Poi è invece arrivata la povertà e per questo sono venuta in Italia dove ho trovato prima buona accoglienza e poi invece violenza, prepotenza e ancora povertà. Se non mi fossi sposata e non avessi un figlio, andrei in qualche altro paese. Qui non si può più lavorare senza essere sfruttate».
Irina è un fiume in piena. Non ha mai denunciato perché dice di non credere nella giustizia italiana: «Ho visto donne e uomini indiani o bangladesi, ad esempio, cadere da quelle serre ed essere soccorsi con un bicchierino di caffè....tutto qui...un bicchiere di caffè e poi devi continuare a lavorare come prima. Non ti mettono mai in sicurezza, non ti fanno mai lavorare in sicurezza. Non gli conviene...Anche perché sanno che i controlli non si fanno. Io in quindici anni circa non ho mai visto controlli in azienda. Certo, so che in giro li fanno ora, soprattutto dopo lo sciopero di qualche anno fa, ma sono ancora pochi e a volte sono controlli anche telefonati...». La sua non è una confessione ma uno sfogo: «Ho avuto problemi di salute mentale molto gravi. Sono andata varie volte dal medico che mi ha fatto vari certificati. Qualche volta mi ha detto che rischiavo anche un infarto. Altre volte invece avevo crisi da stress da lavoro intensivo che mi destabilizzava completamente. Se pensi che quando fuori calava il sole noi lavoravamo al buio, senza luce. Questo era un disagio estremo. Non avevi più il senso della giornata e ti disorientava. Entravi in azienda alle 06.00 col buio e uscivi alle 22.00 ancora con il buio. E inoltre dalle 16.00 in poi lavoravi di fatto al buio. Era come un carcere, te l'ho detto».
Ogni diritto viene sospeso
Un carcere come quello di Santa Maria Capua Vetere, dove il controllore diventa aguzzino e dove il diritto viene sospeso. «C'erano alcune amiche, quelle con le quali ero più in confidenza, che a volte, durante le giornate più dure, confidavano il desiderio di farla finita. Io mi arrabbiavo perché piuttosto che pensare al suicidio, sarei andata in direzione ad urlare. Ma non riuscivo ne potevo fare nulla. Eravamo tutte nelle stesse condizioni». E poi il linguaggio usato dai padroni e dai suoi sodali. Era la cristallizzazione di un rapporto di potere che aveva bisogno della sua colonna sonora per potersi manifestare e penetrare nei corpi e nelle menti degli sfruttati. Anche su questo Irina è chiara: «Il caporale che ci governava si. Con me non andava d'accordo. Ci trattava come bestie. Pensa che poteva capitare di lavorare dalle 06.00 del mattino fino alle 24.00 e poi di tornare a lavorare la mattina seguente. Ma in questo caso arrivavamo stanche, molto stanche, e ci offendeva dicendoci che avevamo lavorato male il giorno precedente e che quella mattina non eravamo presentabili. Ho sentito dire da lui ad alcune ragazze che puzzavano o che non erano belle e che l'azienda invece ci teneva alla loro presenza. Capisci? Dovevamo essere ai loro ordini, dire sempre signor si, lavorare come schiave ed essere anche belle...C'erano anche frasi razziste, senza dubbio. Contro di me no, ma le ho sentite contro le donne indiane ad esempio...del tipo indiana di m***a. Soprattutto il vecchio caporale usava spesso queste espressioni che erano offensive e razziste. Ma quello che facevano era colpirci in modo molto più sottile e strategico. Ad esempio, prendevano informazioni sulla nostra vita, seguivano quello che scrivevamo e postavamo sui social, soprattutto facebook. Se qualcuna si sfogava sui social, subito veniva ripresa e le veniva chiesto di cancellare. Oppure se tu dicevi per stanchezza e stress che stavi male e che il giorno dopo dovevi per forza restare a casa ma postavi una foto del mare, allora potevi essere subito richiamata al telefono e ti dovevi giustificare, oppure il giorno dopo ti facevano storie o battute del tipo... ma ieri non stavi male? E allora perché eri al mare?…E queste erano tutte forme di pressione che ti schiacciavano e ti facevano male, molto male».
Fine di un incubo
Irina è uscita da questo incubo proprio quando ha rischiato di morire: «È stato a fine dicembre scorso. Ho avuto un crollo fisico totale. Una sorta di crisi del corpo e dell'anima. Ormai erano settimane che non dormivo più e avevo continue crisi di pianto per colpa loro e dei loro ordini, profitti e prodotti. Quando mi facevo a casa la doccia avevo delle irritazioni rosso fuoco sulla pelle a causa delle muffe, dei moscerini e dei veleni o prodotti che ci facevano diffondere in serra. Quel giorno in cui mi sentii male ero come in trance. Ancora oggi non ricordo nulla di quello che accadde. Avevo anche una gamba nera perché mi cadde un carrello carico sulla gambe ma ovviamente continui a lavorare come un robot. Avevo la gamba che mi faceva male, non dormivo, mangiavo pochissimo e comunque solo panini, avevo crisi di panico e di pianto continui. Ero uno zombie per colpa loro. Non mi reggevo più in piedi. Mancavano pochi giorni alla fine del mio contratto ma ormai ero arrivata alla fine della mia vita. Decisi di mandare una mail per prendermi un giorno di ferie all'amministrazione che neanche mi rispose. Pensa tu. Gli dissi quello che mi era accaduto e non risposero. Restarono in silenzio e io non sapevo se l'avevano ricevuta, se mi giustificavano o se avrei avuto dei problemi. Andai quel giorno dal medico. Ti dico la verità, non ricordo neanche come ci arrivai, come ero vestita, niente. Il medico mi disse che avevo il fegato appesantito e avevo anche un livello di tossicità molto grave a causa di quelle condizioni di lavoro e di quello che respiravamo. Allora lì decisi di farla finita. Ero arrivata al punto di decidere se lavorare o morire e onestamente, guardando mio figlio, decisi di vivere».
Finito l'incubo, se ne può finalmente parlare. «Ne sto parlando, anche se ho paura di ritorsioni perché quelli ne sono capaci - afferma Irina - perché bisogna sapere e anche mio figlio dovrà sapere che la madre ha subito sfruttamento e anche grave ma alla fine si è ribellata. Perché io sono così, sono una ribelle e non voglio che pensino che sono io in torto. I padroni hanno fatto i padroni ma io non farò ancora la schiava e per questa ragione te ne sto parlando perché so quello che tu hai fatto e detto ed è sempre stata la verità».
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