Soumaila non era solo un bracciante maliano sfruttato, ma anche un giovane sindacalista dell’Unione sindacale di base e attivista per i diritti dei braccianti. Gli hanno sparato con un fucile, alla testa. Si era all’inizio del primo governo Conte e Salvini, allora Ministro degli Interni, annunciava la “fine della pacchia”
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tratteremo il tema del caporalato e del lavoro che diventa schiavitù, arricchendo padroni e padroncini.
Ci sono braccianti, spesso migranti, che muoiono di lavoro sia d'estate che d'inverno. È accaduto ad esempio a giugno scorso a Camara Fantamadi. Aveva appena 27 anni ed era arrivato dal Mali. Uno dei tanti uomini e donne giunti da paesi lontani per lavorare sotto padrone italiano. Veniva infatti sfruttato nei campi del brindisino dove ha trovato la morte per via del caldo torrido. Nel 2015, ancora in Puglia, perse la vita Paola Clemente. Italiana, bracciante, sfruttate da un'alleanza perversa tra sistema padronale e interinale.
Poi ci sono braccianti che muoiono non nei campi agricoli ma mentre cercano di costruire la loro baracca quale unica prospettiva di vita in un paese che ha delegato la politica abitativa alle banche e alle grandi agenzie immobiliari. È toccato ad esempio a Soumaila Sacko il 2 giugno del 2018, a San Calogero, in provincia di Vibo Valentia, morto sotto alcuni colpi di fucile. Ne parliamo con Arturo Salerni, avvocato della famiglia di Soumaila e fondatore dell'associazione Progetto Diritti.
«Il suo omicidio è avvenuto – dice Salerni - nei pressi di una fabbrica abbandonata in cui Soumaila si era recato con due suoi compagni per recuperare delle lamiere con le quali coprire le misere dimore site nella baraccopoli di San Ferdinando, vicino Rosarno, dove vivono centinaia di lavoratori agricoli in gran parte di origine africana». Soumaila non era solo un bracciante maliano sfruttato ma anche un giovane sindacalista dell’Unione Sindacale di Base e attivista per i diritti dei braccianti. «Le indagini sulla sua morte sono state condotte da un giovane scrupoloso pubblico ministero della Procura di Vibo Valentia che, conclusa l’inchiesta, ha richiesto di svolgere il processo con rito immediato davanti alla Corte di Assise di Catanzaro» continua Salerni, che ha seguito tutte le fasi del processo cercando verità e giustizia anche durante il dominio sovranista di questo Paese rappresentato dal governo del ministro dell’Interno Matteo Salvini. Come è avvenuto questo omicidio? Ancora Salerni dichiara: «Soumaila viene colpito alla testa. Gli hanno sparato con un fucile. Ed hanno sparato ai due suoi compagni, Drame e Fofana, anche loro braccianti, sindacalisti e maliani, che lo accompagnavano nella fabbrica di San Calogero». Non a caso si era all’inizio del primo governo Conte, e proprio Salvini annunciava la «fine della pacchia» e la legittimazione della «legittima difesa» da usare, armi in pugno, contro chiunque. In molti, come spesso capita in questo Paese, attraverso il volto pulito di Soumaila, hanno cominciato ad interessarsi alle terribili condizioni di sfruttamento dei braccianti. «Quella morte – secondo Salerni - ha anche dato una spinta poderosa a forme di organizzazione sindacale dei braccianti, di conoscenza dei diritti, ad attività di inchiesta e di denuncia sui tanti lati oscuri della nostra filiera agricola ed alimentare e sulla assurdità di normative che generano clandestinità ed alimentano l’illegalità e l’insicurezza».
Insomma, gli sfruttati destano attenzione se muoiono nei luoghi dello sfruttamento. Un cortocircuito etico. Serve la morte, magari violenta, di uno schiavo per interrogarsi sulla schiavitù contemporanea. Serve scandalizzarsi per sollecitare una reazione pubblica e poi politica. Una democrazia impallata.
Oltre la morte di Soumaila
La storia di Soumalia però non finisce con la sua morte. «I familiari di Soumaila – afferma Salerni - vivono a Sambancanou, in una regione molto e povera distante da Bamako, capitale del Mali. Nonostante la difficoltà di raggiungere la capitale per svolgere tutte le pratiche necessarie, le tre sorelle, il fratello, la mamma e la moglie di Soumaila hanno voluto costituirsi parte civile nel processo di Catanzaro, anche per conto della piccola Niouma, figlia del sindacalista scomparso, per chiedere di conoscere la verità e di ottenere giustizia per quel ragazzo partito dall’Africa e morto in Italia».
Il processo è iniziato a febbraio del 2019 ed ha visto come accusato di omicidio volontario Antonio Pontoriero. L’Usb si è costituita parte civile. «In tante drammatiche udienze ascoltando investigatori, testimoni, consulenti medici e balistici, vengono ricostruiti dai giudici i diversi passaggi della terribile vicenda» dichiara Salerni, che con la sua associazione si è costituito parte civile anche in altri processi per caporalato, aggressione, violenza e sfruttamento in provincia di Latina, a tutela dei lavoratori e delle lavoratrici indiani. Proviamo a ricostruire, secondo le evidenze processuali, quanto accaduto quel 2 giugno, mentre Salvini, dall'alto del suo “balcone” ministeriale urlava la svolta e nel contempo aizzava gli animi dei suoi “hooligans” contro tutti gli immigrati. «La fornace “Tranquilla” si trova a metà strada tra Rosarno e Vibo Valentia. Siamo nel pomeriggio. Per recuperare le lamiere bisogna arrampicarsi sul tetto di un vecchio capannone a circa sei metri di altezza. Drame e Soumaila salgono su, smontano le lamiere, le fanno scivolare verso terra dove si trova Fofana. Prima delle sei del pomeriggio si sente un colpo di arma da fuoco. È la prima fucilata. In alto, su un costone, vi è un uomo, seduto, che imbraccia un fucile. Drame grida, rivolto al suo compagno, di scappare. I due saltano giù dal tetto, e tentano di ripararsi dietro un muretto. Ma un secondo colpo attinge al capo Soumaila che cade a faccia in giù. L’uomo dall’alto non smette di sparare. Prende di mira prima Fofana e colpisce la pesante lamiera che stava trasportando e che gli fa da scudo e lo salva. Quindi l’uomo vede Drame e rivolge l’arma verso di lui. È una scarica di pallina che lo colpisce ma non lo ferisce. Drame e Fofana, mentre Soumaila è a terra, scappano via. Si ritrovano sulla strada che torna a Rosarno, ma mentre Fofana corre trafelato a chiamare i carabinieri, Drame torna indietro per cercare di soccorrere l’amico. Lì vede l’autovettura condotta dal Pontoriero ed ha modo di vedere in faccia lo sparatore» racconta Salerni. Nel suo studio sono passati attivisti, giornalisti e avvocati. Tra questi anche il compianto Alessandro Leogrande che per primo ha analizzato e denunciato lo sfruttamento dei migranti nelle campagne.
Salerni ha lavorato anche sul processo Plan Condor che a luglio scorso ha portato all'ergastolo 14 ex militari latinoamericani, riconoscendo le responsabilità degli imputati coinvolti nell’omicidio di numerosi desaparecidos italiani. C'è un legame tra le due vicende. Altri contesti, periodi, protagonisti. Ma la violenza reiterata, la sete di ridurre l'uomo ad oggetto e poi di annientarlo al punto da decretarne il consumo e poi la morte, sono elementi in comune. E poi la costante ricerca, ad ogni costo, del potere, sia esso dittatoriale o padronale. È un potere che umilia, perseguita e infine annienta gli oppositori, ogni ostacolo e ogni tentativo di ribellione. Tutto questo fino a quando non avviene un cortocircuito in questa macchina infernale e un coraggioso senso di giustizia e di democrazia interviene, grazie in genere a poche persone, a ribaltare il sistema. In Italia è accaduto con la resistenza contro il nazifascismo. Allo stesso modo sempre più braccianti, immigrati e italiani, si ribellano ai padroni, ai padrini, si coalizzano e conquistano spazi democratici in cui affermare la propria libertà e giustizia.
Il processo e la condanna
La ricostruzione di quel pomeriggio da parte di Salerni va avanti: «Una volta arrivati i carabinieri con Fofana alla fornace abbandonata, c’è Drame ad aspettarli ed a condurli nel luogo in cui si trova Soumaila. Il ragazzo è a terra, respira a fatica, ferito alla testa e pieno di sangue, si lamenta per il dolore è a terra. I carabinieri chiamano il 118. Soumaila viene trasportato all’Ospedale di Reggio Calabria, giunge in coma al Pronto Soccorso, ed alle 22 e 15 i medici ne constatano il decesso». Sembra di vedere questo ragazzo riverso su quel lettino d'ospedale con un lenzuolo bianco in testa, a migliaia di chilometri di distanza dal suo paese natale, vittima del sistema agromafioso di questo Paese che a volte sembra l'unico sistema di accoglienza eternamente vigente.
«Drame e Fofana vengono subito ascoltati presso la stazione dei carabinieri di san Calogero, ed il loro racconto permette di indirizzare rapidamente le indagini nei confronti del Pontoriero» dice Salerni. Iniziano le indagini e con questa anche «l’ispezione del luogo in cui è avvenuto l’omicidio, vengono ritrovati – ricorda Salerni - i bossoli vicini al luogo in cui l’uomo con il fucile era appostato. Vengono sequestrati i filmati della Fiat Panda, utilizzata dal Pontoriero, che si allontana dal luogo del delitto, effettuati dalle telecamere che si trovano sulla strada che conduce alla località Tranquilla. Le ispezioni a casa del Pontoriero, il ritrovamento dei vestiti, il rinvenimento di particelle di polvere da sparo rinvenute sulla vettura dell’indagato, alcune intercettazioni permettono al Pubblico Ministero di chiudere rapidamente le indagini e di formulare il capo di imputazione».
L’11 novembre del 2020 l’imputato italiano è stato riconosciuto colpevole dei reati che gli erano contestati, condannato alla pena di ventidue anni di reclusione e al risarcimento dei danni nei confronti delle parti civili. Probabilmente i difensori dell’imputato impugneranno la sentenza e del caso si occuperà la Corte di Assise di Appello di Catanzaro, la cui udienza è fissata per il prossimo primo ottobre. Resta una domanda fondamentale: perché Soumaila è stato ucciso? Salerni è chiaro: «Quello che è emerso dal processo è il fatto che la famiglia Pontoriero considerava quella fornace quasi alla stregua di una sua proprietà, di un proprio dominio, avendo qualcuno di loro lavorato nella fabbrica in passato prima del fallimento dell’impresa e per la contiguità tra i loro appezzamenti di terra ed il luogo in cui sorge il capannone. Avevano sempre vissuto con fastidio, quasi fosse uno sgarbo nei loro confronti, le presenze di estranei in quei luoghi». Quasi come se fosse cosa loro.
Emanuele Macaluso in un famoso commento su un sociale scrisse: «A me questo omicidio ricorda quelli che, nel dopoguerra, eseguiva la mafia quando uccideva i capilega che conducevano le prime lotte nelle campagne siciliane per l’occupazione delle terre e la ripartizione più equa dei prodotti prevista dai decreti del ministro Gullo».
Soumaila, come Paola, Balbir, Gill, Jerry e molti altri immigrati non facevano la pacchia in questo Paese. Sono stati sfruttati, alcuni fino a morire. Ma il loro sacrificio ha scritto pagine fondamentali per la democrazia italiana.
© Riproduzione riservata