II caso Tandoj rappresenta il simbolo e l'emblema di una situazione intollerabile. Il dottor Querci, Prefetto di Agrigento, all'epoca del delitto afferma: «Tandoj era un bravo funzionario rispettato da tutti. La mafia non ha mai dato fastidio alle autorità e meno che mai ai poliziotti. [...] E poi, mi dite dov'è questa mafia? Dove sono questi delitti mafiosi?»
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è dedicata alla relazione antimafia del 1976 scritta da Pio La Torre e dal giudice Cesare Terranova. Un documento che a circa cinquant’anni di distanza rimane ancora attuale.
II caso Tandoj rappresenta il simbolo e l'emblema di una situazione intollerabile. Abbiamo visto in precedenza, come il nome del commissario Tandoj venga continuamente chiamato in causa a proposito di tutti i gravi delitti politici avvenuti nella provincia e persino figuri – come nel caso Gioia Genco Russo – come consigliere di affari dal tipico carattere mafioso.
Tandoj, giunse in provincia di Agrigento all'inizio della sua carriera e si trovò quasi subito di fronte al delitto Miraglia. Forse egli cercò di fare il suo dovere ma l'esito del suo zelo è noto.
Fu sottoposto assieme ad altri funzionari ed agenti di polizia ad un procedimento penale per le presunte violenze esercitate a carico dei mafiosi arrestati quali sospetti assassini. Il fatto amaro e deludente peserà, senza dubbio, in termini decisivi sull'orientamento futuro e sulla condotta di questo funzionario che per circa 14 anni ancora opererà e sarà presente con la sua attività investigativa in tutti i casi delittuosi della provincia di Agrigento.
[…] Da allora in poi il commissario Tandoj agisce come se volesse solo esercitare la sua bravura e il suo intuito, scoprirà ogni segreto delittuoso e ogni crimine. Ma con lui la giustizia non farà più il suo corso. Dopo la prima delusione ed esperienza di una società corrotta, si apre per lui uno dei capitoli più incredibili delle connivenze tra i poteri dello Stato e il mondo criminale della provincia di Agrigento.
La figura di Tandoj e la sua “funzione” nel campo dei poteri tra mafia e apparato statale era nota a tutti. Ma il dr. Querci, Prefetto di Agrigento, all'epoca del delitto si affretta a rilasciare al quotidiano catanese “La Sicilia” del 17 aprile 1960 la seguente dichiarazione: «Secondo me è un fatto di alta malavita, ma non di mafia. Tandoj era un bravo funzionario rispettato da tutti. La mafia non ha mai dato fastidio alle autorità e meno che mai ai poliziotti. Essa d'altra parte non ha bisogno di ricorrere al delitto per farsi rispettare. E poi, mi dite dov'è questa mafia? Dove sono questi delitti mafiosi? Ad Agrigento e nella provincia abbiano delle rapine e ogni tanto un omicidio che avviene per motivi di interesse o per motivi d'onore. Dunque lasciamo perdere i romanzi e le storie d'altri tempi. La polizia, secondo me, è sulla strada giusta. Datele tempo e vedrete che non fallirà il colpo». Questa dichiarazione si commenta da sé e getta una vivida luce sull'orientamento del più elevato funzionario dello Stato della Provincia.
La pista passionale
[…] Ritornando al caso Tandoj ed ai suoi sviluppi complessi e sconcertanti, vediamo posti in luce alcuni aspetti tra i più gravi e preoccupanti dei rapporti creatisi tra mafia e apparato statale nella provincia di Agrigento.
Si consideri, quale fu il comportamento della Questura di Agrigento subito dopo l'uccisione del commissario Tandoj, che per 14 anni era stato uno dei suoi funzionari più in vista e solo da poco tempo trasferito a Roma.
Nelle prime ore vi fu sbandamento e confusione e in quei giorni di fronte alle prime indiscrezioni propalate da una parte della stampa sulla vita privata del dr. Tandoj, la Questura di Agrigento nulla fece per difendere la memoria del commissario ucciso da una parte, né dall'altra parte confermò o smentì la gravissima notizia secondo cui il Tandoj aveva condotto delle indagine personali per identificare l'autore di un furto di 6 milioni verificatosi alquanto tempo prima della sua uccisione nei locali del Comando delle guardie di Ps di Agrigento.
Poco dopo però i funzionari della Questura di Agrigento, mentre i carabinieri restavano apparentemente inattivi, indirizzarono decisamente le loro ricerche su una sola pista ben definita, quella del delitto “passionale” che - seguiti in ciò dal magistrato inquirente - doveva portare alla incriminazione del noto esponente democristiano prof. Mario La Loggia quale mandante dell'omicidio, incriminazione successivamente sfumata nel nulla con una sentenza istruttoria di non luogo a procedere.
È stato più volte affermato sulla stampa ed è opinione quasi generale che ad indirizzare le indagini verso la falsa pista del delitto passionale sia stato non già un errore degli inquirenti, ma il malizioso disegno, ispirato persino da alte sfere, tendente assieme a fuorviare le indagini dalle reali causali del delitto.
Ora, a parte tutte le possibili considerazioni sulle deficienze logiche e tecniche di quelle indagini, quel che qui preme rilevare è come in quell'errata impostazione delle indagini l'unico punto solido perché fondato su una, purtroppo, indubbia veridicità fosse costituito dagli effettivi rapporti esistenti fra un alto esponente politico, quale il prof. La Loggia (consigliere comunale Dc, direttore all'ospedale psichiatrico, fratello di un ex presidente della Regione) e gli elementi mafiosi indicati quali esecutori materiali e pratici organizzatori del crimine.
Fu lo stesso prof. La Loggia che al tempo del suo arresto dichiarò per difendersi dall'accusa che col presunto sicario, il pregiudicato Calacione di Favara, non aveva avuto contatti “dal tempo dello ultime elezioni”, fornendo con ciò una sconcertante testimonianza diretta dei sistemi usati anche dalla sua clientela politica nelle battaglie elettorali.
Del resto non è senza significato che un altro dei sospettati quale complice del delitto, fermato e poi rilasciato, un tale Alfano, fosse membro del comitato direttivo di una sezione democristiana di Agrigento e attivo capo elettorale della famiglia La Loggia.
D’altra parte sul diretto intervento dello forze mafiose nelle competizioni elettorali, proprio recentemente è stato gettato un fascio di luce con la pubblicazione delle memorie del noto gangster Nik Gentile il quale descrive come organizzò il suo appoggio alla candidatura dell'on. La Loggia in una campagna elettorale ragionale.
Un omicidio mai chiarito
A proposito delle indagini per il delitto Tandoj è da notarsi che, imbroccata la falsa pista del delitto passionale si trascurò tanto da parte della polizia che della magistratura di riconsiderare tutti gli episodi di criminalità mafiosa di cui il Tandoj si era occupato nel corso della sua attività al servizio della questura di Agrigento, tra cui i delitti politici sopra ricordati, da quello di Miraglia a quelli dei dirigenti democristiani Giglio, Montaperto, Guzzo, fino alla catena dei delitti di Raffadali e al sequestro Agnello.
Questi ultimi in particolare erano stati rievocati subito dopo il delitto Tandoj e in connessione con esso da alcuni organi di stampa della sinistra. Concluso con un nulla di fatto il procedimento contro il prof La Loggia e i suoi presunti complici, dopo un lungo periodo di silenzio, le indagini furono riprese e condotte ad uno stadio molto avanzato dal dr. Fici, sostituto procuratore di Palermo. Frattanto un certo rinnovamento di quadri era stato effettuato nella Questura di Agrigento.
Ma questo non ha migliorato la situazione, ancora una volta uno scuro succedersi di gravi interferenze hanno ostacolato la ricerca della verità il che ha confermato nell'opinione pubblica la dolorosa convinzione dell'impossibilità di portare a fondo l'opera della giustizia quando si tratti di colpire delitti o interessi mafiosi. I fatti, ancora recenti sono noti.
Quel che è sintomatico è il ricomparire in essi due tipici elementi già presenti nella prima fase delle indagini: i rapporti tra ambiente mafiosi, ambienti politici e organi dello Stato (impersonati ora dalla singolare figura del cosiddetto prof. Di Carlo di Raffadali, esponente mafioso e nello stesso tempo segretario della locale sezione Dc, ex giudice conciliatore, confidente patentato dei Carabinieri) ricevono una nuova conferma.
II conflitto di indirizzo tra Questura e Comando dei Carabinieri esplode ancora una volta davanti all'opinione pubblica. Ma l'elemento più grave è costituito in questa ultima fase dall'aperto contrasto tra la Questura di Agrigento e il magistrato incaricato dal procuratore generale della Corte d'Appello di Palermo di contro le nuove indagini, il dr. Fici.
[…] Questo contrasto si conclude inaspettatamente con l'esonero del dr. Fici dall'incarico avuto e la restituzione della “pratica” Tandoj al magistrato locale.
[…] Se la questura di Agrigento ha assunto nei confronti del magistrato inquirente le posizioni che ha assunto è segno che si sente le spalle coperte da forze ben più potenti. E qui il discorso cade sull'aspetto più inquietante e grave della situazione, l’anello mafia -politica -apparato statale non si salda ad Agrigento, ma a Palermo e soprattutto a Roma dove risiedono gli organi che per 14 anni hanno lasciato che il commissario Tandoj sviluppasse la sua oscura azione, che inviano nella provincia i vari prefetti guerci dove hanno le loro radici i conflitti di competenza tra i vari organi dello Stato con i risultati che abbiamo visto.
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