La solitudine di chi denuncia, il (mancato) sostegno da parte dello stato, le minacce, la vita sotto scorta
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.
«Quando io non ci sarò più, i tuoi figli potranno rivolgersi ai miei nipoti».
Con queste parole, dopo averlo fatto sequestrare e portare a casa sua, il boss della cosca Gallelli di Badolato intimava ad Andrea Dominijanni, imprenditore edile e turistico calabrese, vittima per oltre venticinque anni di estorsioni, che la sua sottomissione alla famiglia criminale della zona non si sarebbe esaurita nel tempo.
Fu quell’avvertimento, preceduto dall’ennesimo atto intimidatorio, a far scattare nell’impresario la decisione di porre fine alla sua schiavitù, e, nel 2015, denunciare.
A raccontarlo è lo stesso Andrea Dominijanni, tra i testimoni del progetto “Mani Libere in Calabria”, preda della ndrangheta dal 1997.
«Avevo maturato già da tempo l’idea della denuncia, avevo il desiderio di far piazza pulita di queste persone e covavo la voglia di riacquistare la libertà, ma guardandomi intorno mi rendevo conto che non era ancora il momento giusto».
Fino al 2013 infatti il territorio di Sant’Andrea Apostolo dello Jonio non era ancora stato interessato da importanti operazioni ai danni dei clan. Quando il clima iniziò a cambiare, e dopo un furto che costò all’impresa tutti i suoi macchinari, per un danno di circa 400 mila euro, l’imprenditore si fece coraggio. Fece i nomi dei boss e dei gregari delle cosche Gallelli e Procopio-Mongiardo, facendo scattare nel 2015 il loro arresto con l’operazione Scheria della Dda di Catanzaro.
Secondo quanto ricostruito dagli inquirenti, l’imprenditore sarebbe stato costretto a versare quindici milioni di lire all’anno per poter mantenere il suo villaggio turistico Nausicaa, tra il 1989 e il 2014. Ma sarebbe stato “spremuto” anche nel campo dei lavori pubblici: per dei lavori sulla piscina della vicina Isca sullo Jonio avrebbe pagato 60 milioni di lire, 15 mila euro per il sottopasso ferroviario di Sant’Andrea, e ulteriori “elargizioni” per l’ampliamento di due cimiteri.
Alla denuncia seguirono minacce di morte. Fu offerto a lui e alla sua famiglia di lasciare la Calabria, ma i Dominijanni decisero di restare. «Non volevamo scappare come banditi per darla vinta a quelle persone. Erano loro che dovevano scappare e temere il nostro passaggio, altrimenti non avrebbe avuto senso denunciare. C’è voluto del tempo per trovare il coraggio, per passare dalla parte giusta anche quando non è quella più forte».
Oggi Andrea Dominijanni vive sotto scorta, con tutto quello che questo comporta.
La paura resta, «Io e la mia famiglia continuiamo a sentirci in pericolo, le minacce non si sono mai fermate, non si lavora più come prima e in città siamo isolati da tutti. Lo Stato non ci ha supportato dopo la denuncia. Restare a galla è sempre più difficile, abbiamo ricevuto molte porte in faccia e in tanti ci hanno voltato le spalle. Non esiste una corsia preferenziale per chi ha il coraggio di fare quello che ho fatto io, anzi. Siamo stati lasciati da soli. Una cosa è denunciare, un’altra è sopravvivere dopo».
Eppure non ha dubbi, “lo rifarei”.
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