Giovanni Falcone prima a Palermo e poi al Ministero di Grazia e Giustizia faceva paura alla mafia per i “danni” che aveva causato all’organizzazione criminale. E, a Roma, faceva ancora più paura
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. In questa serie, tocca al racconto della strage di Capaci, in cui persero la vita il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo e tre agenti della scorta: Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Di Cillo.
Dalla sia pur sintetica rassegna, svolta nel precedente paragrafo, delle dichiarazioni rese dai numerosi collaboratori di giustizia escussi nel presente processo emerge in modo evidente una sostanziale convergenza di tutte le indicazioni nell’individuare il movente principale della strage nella volontà da parte di COSA NOSTRA di eliminare colui che rappresentava all’interno delle istituzioni statali il suo più pericoloso avversario per la costante determinazione nel contrastarla mostrata in tutto l’arco della sua attività professionale, determinazione sorretta da una straordinaria conoscenza della realtà criminale sulla quale si proponeva di incidere e da una lucida consapevolezza dei mezzi più adatti per conseguire lo scopo.
Le circostanze evidenziate nel secondo e terzo paragrafo in ordine all’attività svolta da Giovanni FALCONE prima negli uffici giudiziari e poi nella struttura ministeriale confermano come fossero pienamente giustificati i timori dei vertici di COSA NOSTRA per i danni che il Magistrato aveva arrecato ed era più che mai in grado di infliggere a questa organizzazione, nonostante il suo trasferimento a Roma. Ovviamente questi timori non erano mai disgiunti da intensi sentimenti di rancore in personalità certamente non aduse a subire passivamente ed anzi prive di ogni scrupolo nel sacrificare qualsiasi vita umana che potesse ostacolare il conseguimento dei propri obiettivi criminosi, che rappresentavano per essi gli unici valori da rispettare. Ed infatti i collaboranti hanno riferito non solo che il nome di quel Magistrato era sempre profferito dagli affiliati di COSA NOSTRA insieme a pesanti epiteti ingiuriosi e che lo stesso nome era per loro divenuto sinonimo di ingiuria ma anche che contro Giovanni FALCONE era stata pronunciata una sentenza di condanna a morte irrevocabile e che né il RIINA né gli altri affiliati avrebbero placato la loro sete di vendetta sino a quando questa decisione non fosse stata attuata.
Gli "omicidi eccellenti”
Dalle summenzionate dichiarazioni dei collaboranti emerge che questi profondi sentimenti di rancore e di vendetta ebbero ad acuirsi ulteriormente allorché si vanificarono le speranze di COSA NOSTRA di ottenere in Cassazione una pronuncia che smentisse il principio, sul quale Giovanni FALCONE aveva impostato tutto il suo lavoro, del carattere unitario di quell’organizzazione e, quindi, della riconducibilità degli “omicidi eccellenti” alla volontà della commissione provinciale di Palermo in cui sedevano i capimandamento in rappresentanza di tutte le “famiglie” della provincia.
Appare a questo punto necessario verificare se effettivamente tale materia costituisse oggetto del giudizio del maxiprocesso e se la sentenza n. 80 del 30 gennaio 1992 della prima sezione della Corte di Cassazione avesse confermato la validità di tale impostazione.
Per quanto attiene agli omicidi ed ai tentati omicidi trattati nel primo maxiprocesso e commessi sino al primo semestre del 1983, essi riguardavano oltre cento vittime e potevano ricomprendersi nel seguente schema classificatorio: 1) delitti costituenti l’inizio della seconda “guerra di mafia” (tra cui gli omicidi di BONTATE Stefano e di INZERILLO Salvatore); 2) delitti con cui si attuava il sistematico sterminio della fazione perdente, tra cui gli attentati a parenti ed amici dei c.d. scappati, e cioè CONTORNO Salvatore e GRECO Giovanni, inteso “Giovannello” (tra tali omicidi si ricorda quello in danno di MARCHESE Pietro, raggiunto dalla vendetta mafiosa all’interno del carcere dell’Ucciardone a Palermo il 25.2.1982 ed il duplice tentato omicidio del CONTORNO e del FOGLIETTA, commesso il 25.6.1981) delitti concernenti la c.d. tufiata di Ciaculli”, e cioè il tentato omicidio del 25.12.1982 in danno di GRECO Giuseppe Giovanni, inteso “Pino scarpa” o “scarpuzzedda”, ritenuto uno dei più pericolosi killler della fazione corleonese e che rappresentarono la sanguinosa reazione del suo gruppo ai danni di persone considerate legate agli autori della “tufiata”, tra cui alcuni parenti del BUSCETTA; 4) gli altri omicidi comunque ricollegabili alla “guerra di mafia”; 5) gli omicidi attribuiti ad affiliati della cosca di Corso dei Mille capeggiata da MARCHESE Filippo; 6) gli omicidi ai danni di pubblici funzionari, ed in particolare quelli del Capo della Squadra Mobile di Palermo Boris GIULIANO, commesso il 21.7.1979; del Comandante della Compagnia dei Carabinieri di Monreale Emanuele BASILE, consumato il 4.5.1980; dei Carabinieri FRANZOLIN Silvano, RAITI Salvatore, DI BARCA Luigi e dell’autista privato DI LAVORE Giuseppe, uccisi il 16.6.1982 insieme al detenuto FERLITO Alfio, che essi stavano scortando durante una traduzione e che costituiva il vero obiettivo di questo efferato omicidio collettivo, noto come la “strage della circonvallazione di Palermo”; di Paolo GIACCONE, docente di medicina legale ed incaricato di numerose perizie dai magistrati di Palermo per delitti di mafia, ucciso l’11.8.1982; del Generale Carlo Alberto DALLA CHIESA, Prefetto di Palermo, della moglie Emanuela SETTI CARRARO e dell’Agente della P.S. Domenico RUSSO, uccisi il 3.9.1982 (il RUSSO sarebbe deceduto in conseguenza delle ferite riportate il 15 settembre); dell’Agente della P.S. in servizio presso la Questura di Palermo Calogero ZUCCHETTO, ucciso il 14.11.1982.
L’ordinanza di rinvio a giudizio dell’8 novembre 1985 aveva ascritto gli omicidi dei personaggi più importanti della fazione anticorleonese, tra gli altri, ai seguenti imputati, già all’epoca o successivamente divenuti membri della commissione provinciale di Palermo: GRECO Michele, GRECO Salvatore del 1927, RIINA Salvatore, RICCOBONO Rosario, PROVENZANO Bernardo, BRUSCA Bernardo, SCAGLIONE Salvatore, CALO’ Giuseppe, MADONIA Francesco, GERACI Antonio, GRECO Giuseppe “scarpa”, SCADUTO Giovanni, MARCHESE Filippo e MOTISI Ignazio.
Aveva, inoltre, ascritto tutti gli “omicidi eccellenti” sopra indicati al n. 6) ai seguenti imputati tra quelli appena menzionati: GRECO Michele, GRECO Salvatore, RIINA, PROVENZANO, BRUSCA, SCAGLIONE, CALO’, GERACI, GRECO Giuseppe “scarpa”, SCADUTO, MARCHESE e MOTISI, mentre aveva rinviato a giudizio MADONIA Francesco, tra l’altro, per gli omicidi di Boris Giuliano, Emanuele BASILE e Calogero ZUCCHETTO.
Le responsabilità di Riina e Provenzano
La sentenza della Corte d’Assise di Palermo del 16 dicembre 1987 aveva affermato, tra l’altro, la penale responsabilità del RIINA e del PROVENZANO, ritenuti entrambi rappresentanti del mandamento di Corleone in seno alla commissione provinciale, per la maggior parte degli omicidi loro ascritti, tra cui quelli “eccellenti”; di GRECO Michele per numerosi omicidi, tra cui quelli della “circonvallazione di Palermo” e di DALLA CHIESA, SETTI CARRARO e RUSSO; del MADONIA per l’omicidio BASILE. Venivano assolti da tutte le imputazioni riguardanti delitti contro la vita BRUSCA, CALO’, GERACI, MOTISI e SCADUTO tra coloro cui tali reati erano stati ascritti nella qualità di componenti della commissione provinciale ( non ci si occupa delle posizioni di GRECO Giuseppe “scarpa”, dello SCAGLIONE e del MARCHESE perché le stesse sarebbero state poi stralciate in sede di appello, essendo emersi elementi che deponevano per la loro scomparsa).
Per gli aspetti che sono in questa sede di maggiore interesse mette conto di rilevare che il Giudice di primo grado aveva ritenuto che l’associazione denominata COSA NOSTRA non fosse costituita da una pluralità di cosche mafiose tra loro autonome, bensì che fosse strutturata come un organismo unitario di tipo federalistico – verticistico, articolato in unità territoriali di base, le “famiglie”, che avevano poteri decisionali solo su questioni di loro esclusivo interesse, mentre le deliberazioni su tutte le questioni di maggiore importanza e di più vasta portata erano attribuite all’organo di vertice, denominato cupola o commissione, nel quale sedevano i rappresentanti delle “famiglie” più importanti, cui era attribuita il governo dei mandamenti. Riteneva ancora quella Corte che in seno all’organizzazione fosse intervenuta una spaccatura, culminata nella “guerra di mafia” del 1981, a seguito della quale gli esponenti vicini alla linea dei corleonesi RIINA e PROVENZANO avevano preso il sopravvento, dominando anche all’interno della commissione. Ai componenti di quest’ultimo organismo venivano, quindi, addebitati nella qualità di mandanti gli omicidi che coinvolgevano interessi strategici di più ampia portata solo a condizione che fossero comprovati non solo la carica summenzionata ma anche il personale collegamento con il singolo episodio delittuoso (sotto l’aspetto materiale, strumentale o anche solo logico), essendo stata in concreto verificata anche l’ipotesi di omicidi di rilievo legati ad iniziative individuali, non sostenute dall’assenso di altri membri della commissione.
La sentenza della Corte d’assise di Appello di Palermo del 10 dicembre 1990 assolveva GRECO Michele dalla maggior parte degli omicidi per i quali era stata dichiarata la sua responsabilità in primo grado, condannandolo però per gli omicidi dei due più importanti esponenti della fazione anticorleonese, e cioè lo INZERILLO ed il BONTATE (per quest’ultimo episodio il GRECO era stato assolto in primo grado); il PROVENZANO veniva assolto da tutte le imputazioni per delitti contro la vita; il RIINA veniva assolto dalla gran parte degli omicidi ascrittigli, essendo stata ritenuta la sua responsabilità solo per gli omicidi BONTATE, INZERILLO, MARCHESE Pietro, TERESI Girolamo, DI FRANCO e dei due FEDERICO (per gli omicidi di queste ultime quattro persone, consumati in un unico contesto il 26.5.1981, il RIINA era stato assolto in prime cure), nonché per il tentato omicidio del CONTORNO. Venivano, altresì, confermate tutte le assoluzioni per episodi omicidiari pronunciate dal primo Giudice, con le eccezioni sopra indicate, mentre si stralciavano gli atti riguardanti, tra l’altro, l’omicidio del Capitano BASILE.
Nelle motivazioni della propria decisione il Giudice di secondo grado riconosceva l’unitarietà di COSA NOSTRA ed evidenziava che essa era stata sconvolta al suo interno da una guerra che non aveva visto lo scontro frontale di due gruppi ma la contrapposizione di due schieramenti, che avevano diviso trasversalmente varie “famiglie”. Tali contrasti non erano riconducibili alla dicotomia mafia buona (quella dei perdenti) – mafia cattiva (quella dei filocorleonesi), come emergeva dalle dichiarazioni del BUSCETTA e del CONTORNO, ma a conflitti di interesse che avevano portato questi ultimi a rimproverare ai primi, che svolgevano un ruolo predominante nel traffico degli stupefacenti, l’appropriazione di somme destinate ai fondi comuni; conflitti che avevano indotto gli anticorleonesi a progettare l’eliminazione del RIINA e dei maggiori esponenti della fazione avversa e che avevano, infine, comportato la sanguinosa reazione dei corleonesi, avvisati di tali progetti da elementi che militavano nelle medesime “famiglie” alle quali appartenevano coloro che avevano ideato questi progetti. Assegnando, pertanto, diversi livelli di attendibilità alle dichiarazioni rese dai predetti collaboranti, massima per quanto atteneva ai dati riguardanti la struttura di COSA NOSTRA, la sua articolazione territoriale, la composizione dei vari gruppi, gli organismi decisionali e gradatamente scemante per le parti riguardanti i singoli episodi della “guerra di mafia” ed i delitti dei pubblici funzionari, quel Giudice riteneva necessaria una particolare cautela nella valutazione delle propalazioni del BUSCETTA e del CONTORNO in ordine ai predetti delitti. Pur riconoscendo, quindi, che la competenza in ordine alla deliberazione dei c.d. omicidi eccellenti e degli altri omicidi strategici era di norma attribuita alla commissione di Palermo, riteneva la Corte che ai fini dell’affermazione della personale responsabilità di ciascuno di quei componenti dovesse in primo luogo accertarsi se il singolo delitto, che per la sua qualità doveva essere deliberato dall’organo di vertice, effettivamente interessasse l’organizzazione nel suo complesso, tenuto conto della frattura che si era verificata al suo interno e che, inoltre, fosse necessario accertare in concreto se il singolo membro dell’organo direttivo fosse stato messo in condizione di partecipare alla riunione deliberativa, ove avrebbe potuto esprimere – per andare esente da responsabilità per la decisione collegiale – un dissenso che costituisse aperta sconfessione dell’operato della commissione e che fosse, quindi, accompagnato dall’abbandono dell’associazione.
Con specifico riferimento agli “omicidi eccellenti” la Corte rilevava che erano state accertate deviazioni dalla regola del preventivo assenso dell’organo collegiale di vertice e che, quindi, era necessario verificare in concreto l’esistenza di un interesse collettivo riferibile all’organizzazione nella sua globalità quale premessa per attribuire il delitto all’organo predetto. Veniva, quindi, esclusa la sussistenza di tale interesse collettivo per tutti gli omicidi di pubblici funzionari sottoposti all’esame di quel Giudice, che venivano ricondotti, invece, a moventi particolari collegati con il traffico delle sostanze stupefacenti.
L’assoluzione dai reati omicidiari dei vertici di COSA NOSTRA, ad eccezione del RIINA, la cui responsabilità era stata peraltro notevolmente ridimensionata dalla predetta sentenza della Corte d’Assise di Appello di Palermo (Michele GRECO era ormai sostanzialmente esautorato, essendo venuto meno quella sua funzione di copertura agli occhi degli esponenti delle fazione avversaria della reale gestione del potere da parte dei corleonesi) determinava una situazione oggettivamente favorevole per i vertici predetti, le cui aspettative erano quelle di ottenere in ultimo grado un consolidamento di tale situazione, se non addirittura una pronuncia ancor più propizia, nel senso di un’esclusione dell’unitarietà dell’associazione mafiosa denominata COSA NOSTRA e della regola della competenza del suo organismo di vertice per la deliberazione degli omicidi più importanti, regola la cui esistenza il Giudice d’appello non aveva smentito, anche se per le violazioni accertate della medesima regola e per talune incongruenze logiche, poi rilevate dalla Corte di Cassazione, in cui detto Giudice era incorso tale regola era stata di fatto svuotata di qualsiasi valenza probatoria.
Il giudice Carnevale
Secondo le concordi dichiarazioni dei collaboranti summenzionate, dette aspettative erano riposte nel Presidente della prima sezione della Corte di Cassazione che avrebbe dovuto trattare il processo, e cioè in Corrado CARNEVALE. Di quest’ultimo erano note alcune sentenze che applicando con particolare rigore, ed in senso difforme dall’indirizzo giurisprudenziale prevalente, le norme che disciplinano la composizione dei Collegi giudicanti, in particolare delle Corti d’Assise, e quelle che presiedono allo svolgimento dell’iter procedurale dell’accertamento giudiziario, avevano annullato varie pronunce di merito, a volte decretando la regressione del processo alla fase istruttoria. E non v’è dubbio che una tale eventualità, cui miravano numerose eccezioni di nullità proposte dall’agguerrita compagine difensiva, avrebbe consentito a COSA NOSTRA di ottenere un primo notevole risultato, e cioè la sconfessione dell’operato di Giovanni FALCONE, che della fase istruttoria era stato uno dei principali artefici.
Di quella sezione presieduta da Corrado CARNEVALE era, altresì, nota la sentenza dell’11 febbraio 1991 (depositata il 14.2.1991), che interpretando in modo tecnicamente discutibile le disposizioni in tema di custodia cautelare di cui agli artt. 297 e 304 del nuovo codice di rito - statuendo tra l’altro che il “congelamento” dei termini previsto dalla prima norma summenzionata non operasse “ope legis” ma richiedesse un’ordinanza del Giudice procedente, benché tale provvedimento non fosse espressamente richiesto da questa norma ma solo dalla seconda, che peraltro prevedeva effetti più ampi di sospensione dei termini di custodia cautelare – aveva disposto la scarcerazione di circa quaranta imputati di delitti di mafia nel maxiprocesso palermitano, provocando così l’emanazione del decreto legge interpretativo 1.3.1991 n. 60, che aveva ripristinato una situazione normativa che appariva rispondente ad una più corretta interpretazione delle disposizioni summenzionate, ma che era stata criticata da più parti come un “inammissibile intervento governativo su una decisione giudiziaria”, il cui ispiratore era stato individuato anche da COSA NOSTRA in Giovanni FALCONE. Sul punto il Ministro pro tempore MARTELLI ha confermato che all’epoca il Magistrato, pur non avendo ancora assunto formalmente la carica di direttore generale, frequentava gli ambienti ministeriali, avendo ricevuto la proposta di rivestire questo incarico, ed era stato da lui consultato sull’opportunità di un tale provvedimento legislativo, ricevendone una risposta affermativa, che sottolineava non solo la necessità ma anche l’urgenza del provvedimento per potere addivenire al nuovo arresto degli imputati scarcerati (cfr. verb. del 9.1.1996 pag. 199).
Ma Corrado CARNEVALE non faceva misteri neanche del suo convincimento, che lo portava a ritenere erronea - perché non supportata da alcun elemento probatorio, ma anzi smentita dalle emergenze processuali da lui esaminate in altri procedimenti, ed in particolare dalla grave conflittualità che aveva determinate cruente “guerre di mafia” - la tesi del carattere unitario di COSA NOSTRA, a suo avviso formata, invece, da cosche criminali tra loro autonome e solo occasionalmente alleate. Non v’è dubbio che un tale convincimento, se avesse trovato espressione nella sentenza del maxiprocesso, avrebbe vanificato anni di intensa attività investigativa e determinato probabilmente anche un diverso modello di interventi legislativi, non più calibrati sulle dimensioni di un grande organismo criminale centralizzato, capace quindi di progettare grandi strategie e di incidere pesantemente sulla realtà esterna.
La ricostruzione delle vicende che portarono alla designazione del Presidente del Collegio che doveva trattare il maxiprocesso emerge in primo luogo dalle dichiarazioni rese dal Ministro pro tempore MARTELLI (cfr. pagg. 189 ss. del verb. del 9.1.1996), che ha riferito che sull’operato di Corrado CARNEVALE era stato già avviato un monitoraggio dal suo predecessore Giuliano VASSALLI, che però riguardava tutte le sentenze del Collegio dallo stesso presieduto ed avrebbe, quindi, richiesto dei tempi assai lunghi. Da parte sua egli aveva pensato, avvalendosi anche della competenza tecnica di Giovanni FALCONE, di restringere il campo di osservazione alle pronunce che avevano suscitato maggiore scalpore, circa un centinaio di casi ed aveva munito l’ufficio incaricato di tale compito di un maggiore dotazione di uomini e di mezzi, onde pervenire più rapidamente a dei risultati. L’On. VIOLANTE aveva anche sottoposto al suo esame un dossier di soli otto casi, contenenti a suo avviso “errori plateali o addirittura una preconcetta volontà di liquidazione del lavoro dei P.M. e dei Giudici di merito”. L’attività di monitoraggio avviata dal suo Ufficio aveva evidenziato, secondo il teste, che “nei processi di maggiore rilievo e quelli che avevano sollevato piu' dubbi e piu' contestazioni in realtà i membri del Collegio erano quasi sempre gli stessi con rare e piccole variazioni”. Egli aveva, pertanto, convocato il Primo Presidente della Corte di Cassazione Antonio BRANCACCIO, informandolo degli esiti di quel monitoraggio, che avevano suscitato “generale turbamento e sconcerto” e suggerendogli di adottare “dei criteri di rotazione nell’assegnazione dei processi di criminalità organizzata”. Tale suggerimento era stato poi recepito dal Primo Presidente, che aveva, infatti, designato Arnaldo VALENTE a presiedere il collegio che doveva trattare il maxiprocesso. E, invero, dalle dichiarazioni dal dottor BRANCACCIO in data 12.10.1992, 30.3.94 e il 9.11.1994, acquisite al fascicolo del dibattimento per sopravvenuta impossibilità di ripetizione degli atti per il decesso del teste, nonché dalla documentazione acquisita presso la Suprema Corte di Cassazione risulta che già con nota del 27.6.1991 il Primo Presidente aveva segnalato a Corrado Carnevale la necessità di provvedere alla composizione del collegio in maniera da assicurare la definizione nei tempi previsti del processo e che, essendo stata scartata per ragioni di opportunità la candidatura a presiedere il collegio dello stesso CARNEVALE e dell’altro presidente della sezione MOLINARI, di cui era prossimo il collocamento a riposo per raggiunti limiti di età, Antonio BRANCACCIO aveva assunto l’iniziativa di assegnare alla prima sezione il Presidente VALENTE, giunto in Cassazione all’inizio dell’autunno del 1991. Proprio in quel periodo il Primo Presidente aveva avuto un incontro con Corrado CARNEVALE, segnalandogli l’opportunità di tener conto di tale assegnazione e della disponibilità di Arnaldo VALENTE a presiedere il maxiprocesso. Quest’ultimo da parte sua ha confermato con nota del 10.5.1994 in atti di essere stato officiato qualche mese prima del 9.12.1991, e quindi intorno al mese di ottobre, della presidenza del maxiprocesso , che venne iscritto al Registro Generale in data 23.10.1991 e la cui prima udienza venne celebrata il 9.12.1991.
In proposito va segnalato che il MUTOLO ha dichiarato il 21.2.1996 di aver appreso dal GAMBINO, quando questi venne trasferito al carcere di Spoleto, che il dottor CARNEVALE “aveva avuto paura” e non aveva, quindi, presieduto il maxiprocesso. Ove si tenga conto dei tempi sopra indicati e del fatto che il GAMBINO venne trasferito presso quella Casa di Reclusione il 31.10.1991 appare evidente come gli esponenti più autorevoli di COSA NOSTRA seguissero con particolare attenzione e premura le vicende relative alla composizione del collegio che avrebbe dovuto trattare in Cassazione il maxiprocesso, nel quale peraltro il GAMBINO era imputato.
Con sentenza del 30.1.1992 n. 80 la Cassazione, accogliendo il ricorso del Procuratore Generale, annullava con rinvio le seguenti assoluzioni di componenti della commissione di Palermo :
per l’omicidio di DI CRISTINA Giuseppe, rappresentante della provincia di Caltanissetta ed esponente di rilievo della fazione anticorleonese, ucciso a Palermo il 30.5.1978, nei confronti di GRECO Michele, RIINA, BRUSCA, PROVENZANO, CALO’, MADONIA;
per gli omicidi GNOFFO, ROMANO e SPICA, commessi rispettivamente il 15.6.1981, il 15.3.1982 ed il 15.4.1982 e legati il primo alla “guerra di mafia” e gli altri due in particolare allo sterminio di persone vicine agli “scappati”, nei confronti di GRECO Michele, RIINA, BRUSCA, PROVENZANO e CALO’;
per gli omicidi BONTATE, INZERILLO, MARCHESE Pietro ed il quadruplice omicidio del TERESI, del DI FRANCO e dei due FEDERICO, di cui si è già detto sopra, nonché per il duplice tentato omicidio del CONTORNO e del FOGLIETTA, di cui pure si è detto, nei confronti di PROVENZANO, BRUSCA e CALO’;
per l’omicidio di Boris GIULIANO, nei confronti di GRECO Michele, RIINA, BRUSCA, PROVENZANO, CALO’, MADONIA e GERACI;
per i plurimi omicidi noti come “la strage della circonvallazione di Palermo”, nei confronti di GRECO Michele, RIINA, BRUSCA, PROVENZANO, CALO’;
per l’omicidio di Paolo GIACCONE, nei confronti di GRECO Michele, RIINA, BRUSCA, PROVENZANO, CALO’;
per l’omicidio di Carlo Alberto DALLA CHIESA, della moglie Emanuela SETTI CARRARO e dell’agente di P.S. Domenico RUSSO, nei confronti di GRECO Michele, RIINA, BRUSCA, PROVENZANO e CALO’. Per tale plurimo omicidio veniva, altresì, annullata con rinvio l’assoluzione di Benedetto SANTAPAOLA.
Nel motivare tale decisione la Suprema Corte di Cassazione partiva dalla premessa per cui non poteva più essere posto in discussione, perché questione esclusivamente di fatto, il criterio individuato da entrambi i Giudici di merito per cui erano di competenza della commissione i delitti sicuramente rientranti in un interesse strategico comune all’intera organizzazione mafiosa. Dovevano, pertanto, essere assoggettate al sindacato di merito solo quelle parti della motivazione del Giudice d’appello che si fossero discostate senza ragione dai principi enunciati o che fossero affette da vistose cadute di razionalità o da travisamenti evidenti. E così, ad esempio, per l’omicidio di Boris GIULIANO, che appare sotto vari profili emblematico delle questioni pure sottoposte al vaglio di questa A.G., il Giudice di legittimità rilevava che la sentenza della Corte d’Appello presentava “il vizio logico e motivazionale di aver accentrato l’iniziativa del crimine nel solo gruppo BONTATE – INZERILLO – MAFARA, certamente e duramente colpito dall’attività del dr. GIULIANO, trascurando l’esame del possibile ed anzi probabile concorso di altri gruppi (fra cui quello dei corleonesi, pure danneggiato dalle indagini del funzionario, ad esempio nella scoperta del covo di via Pecori Giraldi), rappresentati in commissione e qui verosimilmente interpreti del comune risentimento e del diffuso timore che le perduranti indagini approdassero ad ulteriori traguardi”. Riteneva, quindi, il Supremo Collegio che fosse “rimasto così inesplorato ed emarginato ingiustificatamente un importante versante di prova che, sul sotteso supposto di un ampio schieramento avverso al funzionario, avrebbe potuto fondatamente accreditare l’ipotesi di una decisione collegiale a monte del delitto, specie se combinata alla rilevanza straordinaria di tale evento ed alla successiva assenza di punizioni, dato – questo – ordinariamente significativo, secondo i pentiti, di un preventivo assenso della cupola”.
Il giudizio inoppugnabile della Cassazione
Altro aspetto di rilievo sottolineato nella motivazione riguardante tale episodio criminoso riguardava i presupposti giuridici per la configurabilità del concorso morale nel delitto dei componenti della commissione di Palermo. In proposito la Corte di Cassazione riteneva rilevante il consenso preventivo, anche se espresso nella forma del consenso tacito, laddove esso comportava “l’approvazione, sia pure non manifestata espressamente, ma chiaramente percepibile, di un’iniziativa altrui, da parte di chi, per compito autoassegnatosi, esercita…il potere-dovere di esaminarla e di delibarne il contenuto rispetto agli interessi rappresentati, di interdirne eventualmente l’attuazione, anche con l’imposizione di sanzioni in caso di disobbedienza”, poiché tale consenso rientrava in questo caso nella categoria degli atti concorsuali, “nelle forme specifiche della istigazione o soltanto del rafforzamento dell’altrui determinazione volitiva”. In questa ipotesi, infatti, l’ipotesi del concorso avrebbe potuto essere esclusa solo fornendo la prova contraria e concreta dell’inesistenza di un nesso causale per l’inefficacia del rafforzamento rispetto all’altrui volontà, che si sarebbe ugualmente determinata in modo autonomo al compimento del fatto, anche se consapevole del dissenso dei componenti della commissione.
Ugualmente interessante, ai fini dell’oggetto del presente giudizio, è il rilievo mosso dal Giudice di legittimità in relazione alla c.d. strage della circonvallazione di Palermo alla decisione del Giudice di secondo grado, che aveva ritenuto questione di limitata portata, e quindi non tale da determinare la competenza della commissione, l’uccisione del boss mafioso FERLITO Alfio, che sarebbe stata da ricondurre ad interessi nel traffico degli stupefacenti di alcuni gruppi di COSA NOSTRA. Osservava, invece, la Corte di Cassazione che l’uccisione nel corso dell’attentato di tre appartenenti alle forze dell’ordine, che costituiva un evento facilmente preventivabile, attese le modalità prescelte, avendo “intuitivi riflessi in punto di energica e pesante risposta da parte dello Stato”, era questione “di portata globale e dunque involgente l’interesse dell’intera organizzazione mafiosa”.
Particolare rilievo riveste anche quella parte della motivazione della Corte di Cassazione che, annullando con rinvio, come si è detto, l’assoluzione dei componenti della commissione per il plurimo omicidio di via Isidoro Carini - che vari punti di contatto presenta con la strage per cui è processo, quanto meno per l’elevato livello della lotta a COSA NOSTRA condotta dalla vittima predestinata dell’azione criminosa - osservava che la Corte d’Appello aveva accreditato “ipotesi congetturali ingiustificatamente divergenti da quella collegabile, secondo una logica lineare, alla più accreditabile delle causali, l’impegno manifesto del nuovo prefetto nella lotta alla mafia, accompagnato dalla facile prevedibilità di reazioni a tutto campo da parte degli organi repressivi in caso di suo assassinio. Considerazioni, queste, riconducenti facilmente ad una matrice programmativa e decisionale di generale autorità e di indiscusso potere, che, giusta gli schemi di fatto accertati, sarebbe arduo non identificare nella commissione di Palermo, vertice supremo dell’aggregazione mafiosa.
L’eccezionale statura del bersaglio attinto, la vastità e intensità dell’impegno dimostrato nei compiti assunti, l’entità delle pressioni a monte del delitto e la gravità delle reazioni, in ogni direzione, che ne seguirono, conclamano l’evidenza di un rapporto di proporzionalità tra la vittima e il livello della determinazione omicida, in cui alla straordinaria rilevanza del primo termine non poteva che corrispondere una decisione assunta al più alto livello decisionale, il solo in grado di maturare e di deliberare, da una posizione non soggetta a controllo e quindi, senza debolezze e tentennamenti…. un delitto di tale gravità e spessore, foriero di risvolti controproducenti di intuitiva evidenza”.
A conclusione di tale esame può, pertanto, ritenersi verificato in modo incontestabile sia che uno degli oggetti del giudizio nel maxiprocesso era costituito dall’accertamento della competenza della commissione provinciale di Palermo a deliberare gli “omicidi eccellenti” e quelli comunque di interesse strategico comune all’intera organizzazione, sia che la Suprema Corte di Cassazione non solo non si limitò ad affermare la validità di tale criterio, già riconosciuto da entrambi i giudici di merito, ma ebbe a correggere le incongruenze logiche e le carenze motivazionali che avevano indotto il Giudice di secondo grado a disapplicarlo di fatto, mandando assolti tutti i componenti della commissione provinciale dalle imputazioni riguardanti i delitti contro gli uomini delle istituzioni.
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