Le mafie semplicemente oggi non appaiano, risultando quasi “invisibili” considerato che hanno deciso di non esprimere violenza salvo casi eccezionali, per non attirare l’attenzione. Con la conseguenza per i boss di privilegiare chi fa “click” con il mouse rispetto a chi spara e crea allarme nella collettività
Su Domani prosegue il Blog mafie, da un’idea di Attilio Bolzoni. Potete seguirlo su questa pagina. Ogni mese un macro-tema, approfondito con un nuovo contenuto al giorno in collaborazione con l’associazione Cosa vostra. Questa serie è incentrata su Trame, il festival dei libri sulle mafie che si tiene dal 22 al 26 giugno a Lamezia Terme.
Ho deciso di scrivere Sapevamo già tutto. Perché la mafia resiste e dovevamo combatterla prima, edito da Solferino, su input del professor Nando dalla Chiesa. Da una parte, mi disse, era rimasto colpito dalle mie lezioni agli studenti del suo corso di sociologia criminale, i cui commenti secondo lui erano ogni volta vivaci, effervescenti; dall’altra per gli approfondimenti che da direttore della Dia avevo svolto su due antichi rapporti giudiziari, uno di fine ‘800 del questore di Palermo Sangiorgi e l’altro del 1971 di un pool di ufficiali dell’Arma e funzionari della Polizia coordinati dal colonnello dalla Chiesa all’epoca comandante dei Carabinieri della Sicilia occidentale.
Due rapporti, ovviamente diversi ma anche simili. Entrambi delineavano una mafia intesa non tanto come “sentimento di bellezza” (slogan che ha come postulato “la mafia non esiste”) ma come organizzazione il cui scopo principale era già da allora gestire potere e fare affari. Ma non solo. Finivano quasi per smentire la narrazione più accreditata secondo cui dobbiamo tutto a Tommaso Buscetta, che nel 1984, rivelò per primo la struttura organizzativa di Cosa nostra. Senza affatto sminuire le rivelazioni di Don Masino fu semmai Giovanni Falcone ad avere il grande merito di mettersi in frequenza, di essere affidabile e credibile per il pentito, inducendolo così a rivelare, dal di dentro la struttura della mafia siciliana.
Quindi, in verità, “Sapevamo già tutto” (il titolo del libro) o quasi.
Sangiorgi, infatti, parlava di 8 gruppi (a Palermo ci sono oggi 8 mandamenti) divisi in sezioni (le attuali famiglie), di un tribunale della mafia (la commissione), di un capo supremo (il capo di cosa nostra). Il colonnello dalla Chiesa evidenziava come le organizzazioni mafiose palermitane avessero in quegli anni orientato le loro scelte operative sull’edilizia e sul traffico degli stupefacenti e come fosse assai pericolosa la loro presenza al nord per via di tanti, troppi, soggiorni obbligati. Scorrendo la rubrica dei 114 denunciati, emerge che già allora, più di cinquanta anni fa, ben 28 erano residenti in Lombardia; inoltre spiegava come fosse irrinunciabile l’attacco ai loro patrimoni: che modernità!
Anche il sottotitolo del libro penso sia eloquente: “perché la mafia resiste”. A questa domanda ho cercato di rispondere illustrando taluni aspetti fondamentali che non possiamo continuare a sottovalutare. A cominciare dall’attuale convinzione tra la popolazione meridionale che la minaccia della mafia sia quasi immanente.
In secondo luogo, il tentativo di spiegare come le organizzazioni criminali non siano solo un fenomeno di povertà: esse, infatti, vanno ovunque, soprattutto dove il Pil cresce e dove c’è minore sensibilità. Non certo per caso oggi si contano 26 strutture di ndrangheta in Lombardia, 16 in Piemonte, 4 in Liguria senza contare l’Emilia Romagna e il nord est.
In terzo luogo cercando di mettere in luce come le mafie semplicemente oggi non appaiano, risultando quasi “invisibili” considerato che hanno deciso di non esprimere violenza salvo casi eccezionali, per non attirare l’attenzione. Con la conseguenza per i boss di privilegiare chi fa “click” con il mouse rispetto a chi spara e crea allarme nella collettività. Non ultimo, certamente, l’aspetto culturale e sociale. A partire dal ruolo delle carceri non poche volte rivelatesi “vere e proprie accademie di mafia” mentre sulla strada possibili futuri boss frequentano le scuole primarie! Una questione della massima importanza tenuto conto che proprio i giovani finiscono per divenire un inesauribile “vivaio”, una cantera che si rivela una vera e propria “linfa vitale”, l’insieme magmatico di coloro e sono tanti purtroppo che si pongono come traguardo nella vita i soldi e il potere. C’è poi, per un’efficace azione di contrasto, la necessità di formare una classe dirigente che, oltre alle conoscenze tecnico professionali venga orientata all’etica della responsabilità, alla capacità di decidere, alla volontà di abbandonare la “mentalità dello zero a zero”, quella asettica e perciò comoda convinzione per cui si possa vincere anche non segnando.
Nella lotta alle mafie per la prima volta siamo passati in vantaggio, ma lo scontro è tutt’altro che vinto definitivamente. Manca l’ultima fase che è propria di ogni conflitto: lo sfruttamento del successo. Occorre l’impegno di tutti, anche di altre “legioni” come il terzo settore, la Chiesa con preti sempre più impegnati nel sociale (il patto educativo firmato il mese scorso a Napoli tra il ministro dell’interno, quello dell’istruzione e l’arcidiocesi per far scendere gli indici di dispersione scolastica va in quel senso) e poi i media e la Scuola, il vero centro di gravitazione di ogni sforzo da realizzare a partire dalle scuole “basse”, così care a Sciascia. Uno step fondamentale.
«Apri il cervello e fai entrare il sole che ti asciuga l’umidità dell’ignoranza» come diceva Ignazio Buttitta, non è solo un detto destinato a rimanere tale, ma deve divenire una sorta di mantra da porre al centro di ogni efficace strategia antimafia.Mai, infatti, una frase è stata più vera: «La mafia teme di più la cultura che la giustizia» (A. Caponnetto).
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