Sulla scia di manifestazioni e sit-in, in aree sempre più ampie del corpo docenti e del comparto studentesco si rafforza la volontà di aderire a varie forme di boicottaggio istituzionale per significare la condanna del governo Netanyahu. La misura più efficace, però, è rafforzare le alleanze nel mondo del sapere, per nutrire le visioni di pace
L’università di Torino ha deciso di non partecipare a un bando di collaborazione con università e istituti di ricerca israeliani.
È la prima, inequivocabile adesione di un ateneo italiano alla richiesta che da giorni avanzano con voce stentorea studentesse e studenti in piazza contro i protratti bombardamenti a Gaza.
Così, sulla scia di manifestazioni e sit-in, in aree sempre più ampie del corpo docenti e del comparto studentesco si rafforza la volontà di aderire a varie forme di boicottaggio istituzionale per significare la condanna della politica scientemente guerresca del governo Netanyahu.
Rispetto a una tale linea d’azione, credo tuttavia ci si debba porre un problema innanzitutto pragmatico, non senza due premesse utili a sgomberare il campo da possibili fraintendimenti.
La prima è che rinfranca constatare il vivo desiderio di studentesse e studenti di tornare a rivestire un ruolo attivo nella vita politica delle loro università e del loro paese.
La seconda è che la strategia di guerra incessante perseguita dal governo israeliano si espone a sacrosanti giudizi di censura. Fatte salve tali premesse, vengo al problema che appunto è pragmatico e che formulo a mo’ di domanda: una misura che tagliasse tutti i rapporti di collaborazione con le istituzioni accademiche israeliane sarebbe davvero efficace?
La società israeliana è divisa tra posizioni tutt’altro che omogenee. Il suo tessuto sociale è lacerato da spinte opposte: l’illusione di porre rapida fine con la forza alla guerra con Hamas si contrappone alla diffusa esigenza, nonostante gli orrori del 7 ottobre scorso, di dimostrare una ferma coerenza con lo spirito democratico, che è anche sempre spinta alla pace.
Le università e i centri di ricerca utilmente nutrono tale interna tensione. Questo perché i luoghi di studio e di formazione sono a ragione considerati come una delle anime più feconde della cosiddetta società civile, cioè quel reticolo di forze sociali e associazioni che non si identificano con le istituzioni politiche e con lo stato.
Entro la società civile, centri di insegnamento e ricerca sono le sedi in cui si producono indispensabili risorse critiche per valutare e contestare le scelte di parlamenti e governi, troppo spesso miopi o auto-interessate.
Se così è, il boicottaggio degli atenei israeliani si espone a un duplice rischio. Da una parte, si isolerebbero proprio le voci che, sorrette da studi, analisi e cooperazione tra centri di ricerca, si oppongono alle scelte dell’attuale governo.
Il dissenso ne uscirebbe infiacchito, privato come sarebbe di risorse finanziarie e della collaborazione diretta con chi, da fuori Israele, potrebbe offrire prospettive meno gravate da angosce pressanti e meno legate a interessi politici di parte.
Dall’altra, si rischierebbe di facilitare un tutt’altro che benefico ravvicinamento tra chi dissente dal governo Netanyahu e chi invece lo sostiene – ravvicinamento nocivo sia per Israele, perché una democrazia deve poter contare su un costante dissenso interno, sia per chi spera di indurre un cambiamento nella politica attuale facendo leva su forze endogene.
Le ragioni più robuste avanzate da chi caldeggia il boicottaggio istituzionale sono due. La prima concerne il ruolo delle università nell’industria militare israeliana e il sostegno attivo nell’occupazione dei territori da parte degli istituti dislocati in Cisgiordania.
La seconda critica insiste invece sulla crescente influenza, entro gli atenei, dei gruppi della destra, più o meno estrema, che incidono in modo deciso sulle linee di ricerca e sui curricula accademici.
Ma proprio queste due ragioni dovrebbero indurre a concludere che gli attuali assetti di potere accademico non potranno certo venire riequilibrati col taglio delle risorse provenienti dalla cooperazione internazionale. Né certo si potrebbero delineare nuove priorità nelle linee di insegnamento e di ricerca, magari a favore di concreti progetti di pace.
Insomma, interrompere la collaborazione istituzionale non solo equivarrebbe ad attribuire all’intero mondo dell’insegnamento e della ricerca una responsabilità oggettiva nella guerra.
Non solo sarebbe imputare a docenti e studenti israeliani, nella loro totalità, un collaborazionismo generalizzato e senza distinguo. Più e prima che questo, il boicottaggio avrebbe il duplice indesiderato effetto di restringere i margini della libertà accademica e soffocare il dissenso che sempre nasce nelle aule di università.
La misura più efficace, piuttosto, è rafforzare le alleanze nel mondo del sapere, per nutrire quelle visioni di pace, oggi considerate utopiche, ma pronte domani a farsi politica concreta.
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