Dopo che Domani ne ha raccontato la storia, la deputata in visita dalla ragazza curdo-iraniana. Era in cerca di protezione, ma è stata arrestata. Ecco i nuovi elementi che potrebbero scagionarla
«Perché sono qua?», continua a chiedersi Maysoon Majidi, l’attivista curdo-iraniana, di cui abbiamo già raccontato la storia, che si trova in custodia cautelare nel carcere di Castrovillari, in Calabria. È accusata di favoreggiamento dell’immigrazione clandestina dopo essere sbarcata sulle coste calabresi il 31 dicembre.
«Perché sono qua» sono le poche parole che Majidi ha imparato in italiano. Non riesce a spiegarsi perché sia detenuta con un’accusa così grave. Era fuggita dall’Iran perché in pericolo e rischia una pena da sei a sedici anni, e una multa di 15mila euro per ogni persona a bordo. «È incredula», spiega la deputata del Partito democratico Laura Boldrini, presidente del Comitato permanente della Camera sui diritti umani nel mondo, che le ha fatto visita lo scorso 24 febbraio.
«La sua storia è credibile», racconta a Domani Boldrini, «perché l’ha dettagliata con ogni particolare», durante un colloquio durato due ore e mezzo – con l’aiuto di due professioniste iraniane – che ha permesso di ricostruire più precisamente il percorso della ragazza di 27 anni, salpata dalle coste turche con il fratello.
Dall’Iran all’Iraq
«Majidi viene arrestata per la prima volta in Iran nel 2017 e viene anche maltrattata, come dimostrano alcuni segni sul braccio», spiega la deputata, «perché militante di un partito curdo di opposizione». Aveva 20 anni.
Due anni più tardi, nel 2019, riceve l’invito delle autorità iraniane a presentarsi. Ma, valutato il pericolo con il padre, professore universitario, decidono che per lei e il fratello è più sicuro fuggire nel Kurdistan iracheno. I due rimangono in Iraq quattro anni, prima a Sulaymaniyah e poi a Erbil.
In Iraq Majidi continua il suo impegno politico, anche a tutela dei diritti delle donne, con l’associazione per i diritti umani Hana, la stessa che ha lanciato una campagna per chiederne la liberazione.
Anche un documento dell’Unhcr prova la sua presenza in Iraq, dove lei e il fratello lavorano per alcune tv locali curde, spiega la deputata. Majidi accoglie le istanze del movimento “Donna, vita, libertà” – grido di richiamo durante le proteste in Iran dopo la morte di Jina Mahsa Amini – e «realizza delle performance a Erbil», dove però non rimarrà a lungo, perché neanche nel Kurdistan iracheno si sente più al sicuro.
Il padre decide così di vendere l’ultima cosa rimasta: la casa. «Con quei soldi Maysoon e il fratello affrontano le spese di questo viaggio che, attraverso la Turchia, li porta sulle coste calabresi», spiega Boldrini, «spendendo in tutto 17mila dollari».
Cosa non torna nelle accuse
A Majidi sembra una terribile beffa, «it’s a joke», dice a Boldrini: è scappata, rischiando la vita, per mettersi al sicuro e cercare protezione, e invece è finita in carcere. La custodia cautelare è la prassi, nella quasi totalità dei casi, quando si è accusati di essere “scafisti”. Gli arresti domiciliari sarebbero una misura meno dannosa.
Ma, ad ogni modo, «sembra che le dichiarazioni accusatorie siano superate dagli elementi che stanno emergendo», evidenzia Boldrini. La ragazza infatti si trova in carcere in base alle dichiarazioni di due dei 77 passeggeri, che allo sbarco l’avrebbero individuata come l’assistente del capitano.
«Sembrerebbe esserci una traduzione imprecisa e fraintendibile», dice la deputata, sottolineando che spesso agli interpreti viene chiesto di tradurre diverse lingue, «ma non sempre la persona è in grado di farlo in modo preciso». E la carenza di mediatori può portare «a traduzioni approssimative e fuorvianti».
I due che hanno accusato la ragazza, rintracciati dal fratello, hanno affermato successivamente, in due video «di non aver detto quelle parole», spiega Boldrini, e «c’è il rischio, quindi, di un grande equivoco che sono sicura la magistratura vorrà prendere in considerazione. Ho fiducia che gli inquirenti ne terranno conto». Per la deputata, sarebbe importante che i video dei due testimoni venissero valutati perché affermano «di non aver mai accusato la ragazza e che la traduzione delle loro parole sia errata».
Tra gli elementi dell’accusa, ci sarebbero poi il possesso di un telefono e di contanti: «Tutti i migranti partono con un cellulare, l’unica áncora di collegamento con la vita che si lasciano alle spalle, e anche con una piccola somma. Questo non può essere considerato un elemento di prova della partecipazione all’organizzazione». A questo si aggiunge che i due fratelli hanno pagato il viaggio e possono dimostrarlo.
Majidi, secondo la procura, avrebbe avuto il compito di distribuire il cibo sul veliero, ma a bordo non c’era cibo da distribuire, racconta a Boldrini, le persone stavano male e non c’erano bagni a disposizione. La ragazza, nei primi quattro giorni di traversata sotto coperta, è stata male, aveva il ciclo e ha protestato per poter salire a prendere una boccata d’aria. Così è riuscita, insieme ad altri, ad andare sul ponte.
Majidi sostiene con determinazione di non aver mai aiutato in alcun modo chi guidava l’imbarcazione che, peraltro, l’ha scagionata prendendosi tutta la responsabilità. «È indispensabile che ogni elemento venga vagliato e approfondito anche alla luce dei nuovi chiarimenti per non incappare in un grande equivoco che comprometterebbe l’esistenza di una giovane donna in cerca di protezione», conclude Boldrini.
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