La crescente presenza di animali da compagnia nelle nostre case ha fatto esplodere il business delle cure veterinarie. Il segmento dei pet è interessato dalla diffusione di attori sempre più grossi, anche multinazionali, che inglobano le cliniche di taglia inferiore. E adesso entrano in campo i fondi d’investimento, che fiutano il grande affare
È un’espansione silenziosa. Avviene in modo irregolare sul territorio italiano e replica una tendenza che in altri paesi è consolidata da tempo. Tocca le cliniche veterinarie di piccole e medie dimensioni, che una dopo l’altra vengono inglobate da colossi del settore. E porta il segno di una trasformazione che riguarda non soltanto la professione dei medici veterinari, ma anche e soprattutto il profondo mutamento culturale che stiamo attraversando lungo una linea di confine fondamentale: quella fra società umane e mondo animale.
Per averne un’idea intuitiva basta guardarsi intorno e cogliere la traiettoria che stiamo percorrendo verso la condizione di società postriproduttive, allegramente lanciate verso l’anchilosi demografica, nelle quali gli animali domestici rimpiazzano la prole e ne drenano il capitale immobilizzato di affettività.
Ma questa idea intuitiva rimane su un piano superficiale, dato che non coglie l’aspetto più cinico della questione: tale slittamento nell’oggetto della nostra affettività pone le basi di un business esorbitante.
Lo hanno capito molto bene le grandi corporation, e adesso anche il capitale finanziario. Per questo rastrellano cliniche, o scommettono capitali sulla sanità animale. Perché si tratta di una frontiera di crescita dei profitti che in questi anni conosce indici elevati e costanti.
Un settore senza crisi
La crisi economica? Non cercatene tracce in questo settore. Da un anno all’altro il mercato globale delle cure veterinarie vive una dinamica incrementale della quale non si intravede arresto. Per avere un’idea bisogna citare i dati.
L’edizione 2023 del Veterinary Healthcare Global Market Report, a cura di Report Linker, parlava di un mercato da 195,77 miliardi di dollari (oltre 176 miliardi di euro), in crescita dell’8,6 per cento rispetto ai 180,32 miliardi di dollari del 2022.
I dati elaborati da The Business Research Company prevedono che per il 2024 verrà sfondato il tetto dei 200 miliardi di dollari (206,49 miliardi, per l’esattezza, che in euro fanno 188,15 miliardi) con una crescita del 7,2 per cento.
Lo stesso rapporto traccia proiezioni di crescita che per il 2028 si attestano su una soglia di 270,68 miliardi di dollari (244 miliardi di euro), con un tasso medio annuo del 7 per cento netto.
Difficile trovare altri settori dell’economia globale in così vertiginosa crescita. Una crescita la cui spiegazione è resa possibile dalla consultazione di altre cifre.
Per esempio, quelle che per il caso italiano vengono elaborate ogni anno da Assalco (Associazione nazionale imprese per l’alimentazione e la cura degli animali da compagnia), in collaborazione con Zoomark, la fiera internazionale del pet food e del pet care che si tiene ogni anno a Bologna. Risulta che, nel 2023, le case degli italiani ospitavano circa 65 milioni di animali.
Dunque, se si tiene conto che al primo gennaio 2024 la popolazione italiana era calcolata in poco meno di 59 milioni, emerge che nelle nostre case gli animali sono nettamente in sovrannumero rispetto agli umani.
Quanto alle specie, sono censiti 29,9 milioni di pesci, 12,9 milioni di uccelli, 10,2 milioni di gatti, 8,8 milioni di cani e 3,2 milioni di piccoli mammiferi (per esempio, conigli) e rettili (fra i quali vanno comprese le tartarughe).
Con queste cifre, il mercato italiano è fra i più appetibili d’Europa. Lo studio “Il valore sociale del medico veterinario” presentato nel 2019 dal Censis riferiva che, con 53,1 animali da compagnia ogni 100 abitanti, il nostro paese è secondo soltanto all’Ungheria (54,2 animali) e nettamente davanti a Francia (49,1), Germania (45,4). Spagna (37,7) e Regno Unito (34,6).
I grandi poli
Un piatto così ricco non poteva che spingere verso la costruzione di grandi poli della cura veterinaria e l’ingresso delle multinazionali. Che pezzo a pezzo stanno ridisegnando la mappa.
L’ingresso in Italia di VetPartners, gruppo attivo dal 2015 nel Regno Unito e presto diventato un marchio globale, è stato il primo segno. Sotto questo marchio sono state radunate 44 strutture italiane, che vanno dal Trentino-Alto Adige alla Sicilia. La principale risposta italiana a VetPartners è stata organizzata dal Gruppo Animalia, nato nel 2019 e già arrivato ad aggregare 48 strutture sul territorio nazionale. Seguono le altre sigle, le cui cifre sono ricavate dai siti ufficiali: Anicura con 33 strutture, BluVet con 23 strutture, Ca’ Zampa con 19 strutture, DoctorVet con 6 strutture, Arcaplanet con 3 strutture.
Il caso di quest’ultima sigla è curioso, poiché è un marchio di prodotti e accessori per animali che da poco ha deciso di entrare nel business della veterinaria, acquisendo un anno fa tre cliniche in Lombardia. Una strategia di integrazione del business che apre scenari da monitorare. E se domani questo esperimento di integrazione venisse tentato dall’industria farmaceutica?
Sul motivo che ha spinto verso questa diffusione dei grandi poli, le idee di chi vive da dentro la medicina veterinaria sono chiare. C’è il fattore dell’affettività diffusa verso i nostri animali da compagnia che ha ingigantito il mercato, certo.
Super specialisti
Ma ce n’è un altro non meno importante: l’approssimarsi sempre più marcato fra la medicina veterinaria che si occupa dei pet e la medicina umana. Un approssimarsi che va nella direzione della crescente specializzazione.
In questo senso, la differenza fra i veterinari che si occupano di animali da affezione e i veterinari che si occupano di animali da reddito è ormai talmente ampia da dare l’idea si tratti di due mestieri diversi.
Il veterinario degli animali da reddito mantiene un profilo da medico generico. Invece il veterinario degli animali da affezione è una figura a cui è richiesta crescente specializzazione: anestesia, ematologia, cardiologia, chirurgia, ginecologia, oncologia, e tutto ciò che parecchio sposta verso la direzione della medicina umana.
Una condizione che, oltre a rendere sempre più costose le strutture perché devono dotarsi di strumentazioni e macchinari adeguati, costringe al lavoro d’equipe. E fragilizza la posizione dei singoli professionisti in un mercato che diventa sempre più appetibile per gli investitori.
Il capitale finanziario
La dinamica che porta al rastrellamento delle strutture medio-piccole da parte di quelle più grandi è inarrestabile. Così come le conseguenze sull’organizzazione e il costo delle prestazioni.
I pareri raccolti in giro e le recensioni sul web raccontano di un’organizzazione del lavoro concepita per produrre numeri, dunque prestazioni molto veloci: 15-20 minuti ciascuna. Quanto ai costi per gli utenti, sono pesanti e spesso sforano i preventivi.
Le ripercussioni si abbattono sugli stessi medici veterinari che si trovano inglobati nelle grandi strutture. Per alcuni si tratta di un’opportunità, dato che il passaggio alla condizione di dipendente sgrava dai rischi d’impresa. Invece per la maggior parte è un cambiamento in peggio: c’è la perdita di status, e soprattutto la cancellazione di ogni rapporto emotivo-affettivo con la clientela e l’animale in cura.
Invece corre in alto il valore del business. Talmente in alto da avere richiamato l’attenzione della finanza pura.
In questo senso, un segno è stato tracciato lo scorso luglio con l’acquisto del 56 per cento di Animalia da parte di Charme Capital, il fondo d’investimento guidato da Matteo di Montezemolo, figlio di Luca Cordero.
Il giro d’affari è enorme. E chi doveva capirlo l’ha capito.
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