L’amore non basta, è persino una motivazione fuorviante. Il mestiere da medico veterinario è una molto complessa. La distribuzione per profili professionali – aziendali e ambulatoriali – rimane disomogenea. La carenza di veterinari per gli allevamenti potrebbe mandare in panne il sistema zootecnico, mentre chi lavora sugli animali da affezione è a grave rischio burnout
L’amore per gli animali. Chiedete a qualsiasi medico veterinario quale sia stato il motivo determinante per scegliere questa professione. La risposta, pressoché unanime, si orienterà sul sentimento di sollecitudine verso il mondo animale, sull’istinto di protezione e cura per le creature viventi non umane.
Ma, dato questo punto di partenza, può succedere di frequentare la prima lezione di un corso universitario in medicina veterinaria in cui il professore esordisce dicendo: «Se fra voi c’è qualcuno che si è iscritto a questa facoltà perché spinto dall’amore per gli animali, esca immediatamente da quest’aula».
Uno shock? Meglio definirlo bagno di realtà. Perché è difficile riscontrare, in altre professioni uno scarto così grande fra l’immagine che se ne alimenta all’esterno e la sua reale configurazione in termini di missione e responsabilità sociale.
Di più: non si trova una professione altrettanto ignota a chi decide di intraprenderne il percorso di formazione. Sicché va a finire che il quinquennio universitario, un curriculum da laurea di vecchio ordinamento annegato nel contesto di un sistema formativo universitario iperframmentato in un puzzle di triennali e specialistiche, diventa un cammino di auto correzione. E il cammino può iniziare con un trauma, come quello impartito dal docente che vi invita a levarvi di torno se avete in testa idee bizzarre come «l’amore per gli animali».
«No che non ero pronto per sentirmi dire una cosa del genere». Alberto (nome di fantasia, come tutti quelli che verranno utilizzati, ndr) racconta l’aneddoto come si riferisse a una cosa avvenuta il giorno precedente, anziché una ventina di anni fa. E aggiunge che, a tanto tempo di distanza, quello shock è stato utile: «Aveva ragione lui, non avevo le idee chiare su quali siano le potenzialità di questo mestiere».
Risparmia di aggiungere che in questa condizione di scarsa consapevolezza non si trova isolato, e che anzi si tratta di norma e non di eccezione. Perché davvero la professione di medico veterinario è complessa più di molte altre. E il primo elemento di complessità è l’inconsapevolezza di partenza.
Disorientati
No, quello del veterinario non è semplicemente “il mestiere del medico degli animali”. È molte altre cose, ma soprattutto sollecita a elaborare una visione completamente diversa di cosa sia il mondo animale e di quale senso debba darsi al concetto di cura.
È uno degli aspetti che emergono da un lavoro di ricerca che in questi mesi viene condotto dal dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’Università di Firenze. Che parte da uno spunto minimo ma poi si allarga a macchia d’olio e prova a indagare sui molteplici aspetti di una professione che ha difficoltà a conoscere sé stessa.
Lo spunto è proprio il concetto di “medico degli animali”. Già, ma quali animali e per quale tipo di cura? Tutto parte da una chiacchierata con un giovane allevatore toscano, dalla quale emerge la crescente difficoltà di reperire i cosiddetti “veterinari aziendali”, o “buiatri”.
Una difficoltà che in molte zone del paese, alla lunga, potrebbe mandare in panne l’intero sistema produttivo della zootecnia e che nasce dalla schiacciante preferenza per l’altro, grande profilo oggi prevalente nella gamma delle professioni veterinarie: quello ambulatoriale, orientato alla cura dei pet o animali da affezione.
Quest’ultimo profilo comporta una visione e un approccio completamente diversi rispetto alla cura degli animali da reddito o grandi animali, la cui funzione non è quella di popolare il paesaggio domestico e affettivo del nostro quotidiano ma piuttosto quella di essere come macchine da produzione.
Che detta così può sembrare anche brutale, e invece è un pezzo di grande importanza non soltanto in termini di produzione e riproduzione sociale, ma anche di manutenzione della sanità pubblica.
«È vero, in alcune zone siamo già in piena sofferenza e lo posso testimoniare personalmente», ci dice Andrea, che si occupa di grandi animali in Campania. «Fino a poco tempo fa qui eravamo in due. Poi il mio collega si è trasferito e sono rimasto da solo. Vado in giro tutto il giorno per un territorio che si fa sempre più grande. Non ho più orari».
All’emergenza si aggiunge il paradosso: le opportunità di lavoro da veterinario aziendale abbondano (e sarebbero anche ben pagate), mentre il settore dei veterinari da ambulatorio si fa sempre più intasato. Né la gamma delle alternative si ferma qui. Al mestiere di veterinario si aprirebbero altre opzioni come quelle della sanità pubblica, del controllo degli alimenti, del ramo farmaceutico e, in generale, della ricerca scientifica.
Tutte opzioni ignote al momento di entrare nelle facoltà. Questo mette in luce una delle impasse più gravi dell’intera struttura professionale: quella dell’orientamento universitario, il lavoro da fare sulle matricole affinché abbiano chiare tutte le opzioni messe a disposizione dal mercato del lavoro.
Le università potrebbero fare di più? «La verità è che le università stanno seguendo il mercato. E in questo momento il mercato pende nettamente dalla parte dei pet», dice Giovanni, che lavora sui grandi animali in Lombardia. Una tendenza molto marcata, quella che privilegia il veterinario degli animali da affezione, cui la fase della pandemia pare aver dato una decisa accelerazione.
Il rischio del burnout
Ma allora come se la passano i veterinari che lavorano sui pet? Risposta: per niente bene. L’illusione di essere padroni del proprio tempo grazie al lavoro stanziale da ambulatorio si dissolve presto a causa di un viluppo di motivi, che vanno dal sovraccarico di lavoro all’eccesso di coinvolgimento emotivo, dalla necessità di affrontare massicci investimenti per trasformare un ambulatorio in mini clinica veterinaria al rapporto con la clientela.
Quest’ultimo è un aspetto che mette in sofferenza anche i veterinari aziendali, ma che sul versante ambulatoriale diventa schiacciante. «Certe volte non riesco a capire se mi tocca curare l’animale o fare assistenza psicologica ai suoi proprietari», ci riferisce Greta, titolare di un ambulatorio in Toscana. Elena, che in Veneto lavora sia su grandi animali che su pet, rimarca altri due aspetti: «Quando arrivano qui i clienti sono convinti di beneficiare di prestazioni da Servizio sanitario nazionale. Quando poi si accorgono che devono pagare cifre importanti, a causa dei costi di certi esami che sono dispendiosi anche per noi, cominciano a lamentarsi e a dire che siamo esosi. E poi c’è che ormai impera il “dottor Google”. La gente arriva in ambulatorio dopo avere consultato un tot di pagine web e prende a contestarti se proponi di fare una cosa diversa dall’idea che si sono fatti leggendo cose in rete».
Il livello di stress per i veterinari da ambulatorio è altissimo, a rischio burnout più che per i veterinari aziendali. Ciò che fa emergere un elemento di cui non ha consapevolezza chi non fa questo mestiere: sapevate che, facendo una comparazione tra le comunità professionali, i veterinari fanno registrare un tasso di suicidi fra i più alti? E, anche quando non si arriva al gesto estremo, dilagano le condizioni di stress e depressione.
Con alta incidenza della compassion fatigue, la frustrazione che satura chi svolge le professioni di cura e, toccato da empatia, sente di non essere riuscito a fare abbastanza per alleviare le sofferenze del paziente. È un mestiere difficile quello del veterinario. E ancor più difficile è farne prendere coscienza all’opinione pubblica.
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