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Trent'anni dopo quel terribile 1992, c’è un episodio che è snodo importante per capire il senso di quella guerra di Cosa nostra allo Stato. Ed è l’omicidio di Vincenzo Milazzo. Capomafia di Alcamo.
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Il suo omicidio è uno degli episodi più significativi e meno raccontati, finora, di quel periodo. Avviene il 14 Luglio 1992, pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio. Per anni si è ritenuto che l’ eliminazione di Milazzo fosse da inserire nella lotta per il controllo del traffico di droga o per le proteste sulla sua gestione delle entrate della “famiglia”.
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Ma alcuni elementi hanno sempre destato sospetto: il periodo dell’omicidio - tra le grandi stragi di mafia, il meno opportuno per un regolamento di conti - la partecipazione di Matteo Messina Denaro, amico di Milazzo, all’omicidio, alla presenza di tutti i giovani rappresentanti delle altre famiglie, e l’uccisione, dopo qualche giorno, della sua compagna.
Trent’anni dopo quel terribile 1992, c’è un episodio che è snodo importante per capire il senso di quella guerra di Cosa nostra allo stato.
Ed è l’omicidio di Vincenzo Milazzo. Capomafia di Alcamo, in Sicilia occidentale, frequentatore dei salotti dell’alta società ed esperto raffinatore di eroina, Milazzo era uno dei boss emergenti e godeva della fiducia di Riina, che dopo la guerra di mafia lo aveva promosso a rappresentante del mandamento. Eppure fu ucciso, dietro ordine di Riina, a soli 37 anni.
Il suo omicidio è uno degli episodi più significativi e meno raccontati, finora, di quel periodo. Avviene il 14 Luglio 1992, pochi giorni prima della strage di Via D’Amelio. Per anni si è ritenuto che l’ eliminazione di Milazzo fosse da inserire nella lotta per il controllo del traffico di droga o per le proteste sulla sua gestione delle entrate della “famiglia”. Ma alcuni elementi hanno sempre destato sospetto: il periodo dell’omicidio – tra le grandi stragi di mafia, il meno opportuno per un regolamento di conti – la partecipazione di Matteo Messina Denaro, amico di Milazzo, all’omicidio, alla presenza di tutti i giovani rappresentanti delle altre famiglie, e l’uccisione, dopo qualche giorno, della sua compagna.
I segreti di una strage
Bisogna partire da Messina Denaro, per capire. Nel 1992 ha 30 anni, è un boss in carriera. Nella guerra che Riina vuole fare allo stato, dopo che la Cassazione ha confermato, a Gennaio, le condanne del maxiprocesso, Messina Denaro ha il compito più delicato. Che non è quello di organizzare gli attentati, ma di vigilare sull’unità di Cosa nostra. Evitare tentennamenti nell’organizzazione, diserzioni. E sparare alle spalle di chi fugge.
In Cosa nostra, infatti, in tanti non erano convinti di quelle strategia stragista, alcuni boss sapevano che la reazione dello Stato sarebbe stata dura, perché d’altronde così era sempre accaduto. Ma bisognava solo obbedire. Lo sapevano bene i rappresentanti della famiglia mafiosa di Marsala: a loro Riina aveva chiesto di occuparsi dell’eliminazione di Paolo Borsellino, procuratore in città.
La risposta era stata un imbarazzato no. Fu così che i due capimafia di Marsala, Francesco D’Amico e Francesco Caprarotta, scompariranno a Gennaio 1992, su ordine di Riina. Rapiti il 12 Gennaio, i loro corpi non saranno più ritrovati.
Sparare alle spalle di chi fugge. È questo il compito di Matteo Messina Denaro. Ed è così che si spiega l’eliminazione di Vincenzo Milazzo, che ha pagato con la vita il suo no alle stragi, la ricerca di una via di fuga.A dire chiaramente che Vincenzo Milazzo è stato ucciso per questo motivo è oggi il pentito Andrea Di Carlo, ex boss di Altofonte: «In quel periodo bastava una parola fuori posto per diventare nemici di Riina». E parole fuori posto Milazzo ne diceva parecchie. «Riina vedeva sempre traditori in Cosa nostra, perché aveva paura e chi non era vicino a lui lo uccideva» continua Di Carlo.
Ma perché Vincenzo Milazzo era contrario alle stragi? Era stato coinvolto nelle indagini sulla strage di Pizzolungo, a Trapani, del 1985: l’autobomba fatta esplodere per eliminare il giudice Palermo, e che aveva ucciso una donna, Barbara Rizzo, e due suoi figli di cinque anni, Giuseppe e Salvatore Asta. In primo grado era stato condannato all’ergastolo. Per i giudici Milazzo era l’organizzatore della strage e il principale responsabile della gestione della raffineria di eroina di Alcamo.
La strage sarebbe stata decisa per proteggere la fabbrica della droga dall’azione investigativa di Palermo. Nel processo di secondo grado, però, Milazzo viene assolto. Nel ‘91 la Cassazione, nonostante il Pg avesse chiesto la riapertura del processo, aveva confermato l’assoluzione. Presidente era il giudice Corrado Carnevale. Sulla scia di questa sua esperienza Milazzo andava dicendo a tutti che gli attentati avrebbero portato solo guai: «Vi voglio vedere, poi, quando pioveranno gli ergastoli». Dopo la strage di Capaci Milazzo cerca allora di attivarsi per bloccare gli attentati e il piano di Riina.
Ma con chi decide di parlare Milazzo? Non solo con gli altri boss di Cosa nostra, ma mette su una sua personale trattativa. Essendo molto conosciuto, non ci mette molto ad avere i contatti giusti. Chi erano? «Persone che dicevano di far parte dei servizi segreti» dice oggi Armando Palmeri, autista di Milazzo in quegli anni (era latitante) e suo amico. Incontri segretissimi. Almeno tre. In ville di medici, imprenditori e politici del luogo che si offrono come mediatori. Per uscire dal tunnel di Riina, però, Milazzo si infila in un gioco più grande di lui.
La trappola
Racconta Palmeri che Vincenzo Milazzo era quasi “affascinato” da quei signori che gli erano stati presentati, e che aveva cercato di pedinare, per capire chi fossero, ma senza successo. Ed era convinto che il piano di Riina fosse una follia, ma sapeva anche che da solo non avrebbe potuto fermarlo. Per questo stava cercando una sponda fuori dalla mafia.
Ma quelle persone influenti risposero alle sue preoccupazioni in una maniera per lui imprevista: non erano intenzionati a fermare le stragi, ma gli avevano chiesto se c’erano margini per spostare gli atti terroristici fuori dalla Sicilia. Un racconto inquietante, perché l’anno successivo, nel 1993, effettivamente, la mafia porterà la guerra allo Stato fuori dalla Sicilia.
«Noi siamo dei burattini nelle loro mani, loro sono la vera mafia» commentava Milazzo, spaventato. Si era messo in un doppio guaio: non poteva dire di no a Riina, ma adesso doveva delle risposte pure a questi suoi nuovi interlocutori. Ne aveva parlato pure con Gioacchino Calabrò, che oltre che suo braccio destro (carrozziere, era rimasto anche lui coinvolto nella strage di Pizzolungo) era, ancora di più, fedelissimo a Riina.
Su ordine di Riina, Calabrò tende la trappola. Il 14 Luglio Milazzo ha un appuntamento con lui in un casolare. Appena scende dalla sua Clio Bianca si accorge della presenza di Giovanni Brusca, Giuseppe la Barbera, Antonino Gioè e Matteo Messina Denaro. È Antonino Gioè, l’artificiere della strage di Capaci e suo grande amico, a sparargli un colpo in testa con la sua P38. Messina Denaro pensa invece a occultare il corpo in una fossa, poco lontano. Per la prima volta, poi, la mafia decide di uccidere deliberatamente una donna. È Antonella Bonomo, la compagna di Vincenzo Milazzo. È disperata, perché il suo fidanzato da due giorni non dà notizie. Qualche giorno dopo Calabrò la va a prendere a casa, le dice che Vincenzo è nascosto e le deve parlare. Arriva al casolare. È un luogo che conosce, e non si meraviglia di trovare Gioè e gli altri.
Sono amici del suo compagno, e quindi anche suoi amici. Invece, una volta entrata, la attende la morte. Le regole di Cosa nostra impongono che alle donne non si spara. Pertanto, viene strangolata. Aveva 23 anni. È Riina che chiede che venga uccisa anche la donna, perché, come dice un altro pentito, Giuseppe Ferro “questa ragazza conosceva tutti i nostri posti”.
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