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Se esiste un “carattere nazionale del giornalismo” un tratto del giornalismo italiano è certamente una certa indulgenza verso le forze di polizia, esito tanto degli anni di piombo quanto del desiderio degli editori di evitare attriti.
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L’incapacità di correggersi delle amministrazioni pubbliche ha come premessa e risultato la frase che un agente scaraventa sui detenuti durante il pestaggio di Santa Maria Capua a Vetere: «Lo stato siamo noi!».
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Senza sottovalutare i vizi strutturali, dalla farraginosità delle norme con conseguente produzione di “burocrazia difensiva” all’incertezza e alla sovrapposizione delle competenze, è evidente che alle inadeguatezze concorrono colpe individuali.
Se esiste un “carattere nazionale del giornalismo”, ipotesi di lavoro che da tempo ispira ricerche universitarie statunitensi, un tratto del giornalismo italiano è certamente una certa indulgenza verso le forze di polizia, esito tanto degli anni di piombo quanto del desiderio degli editori di evitare attriti con quel mondo.
Si potrebbe spiegare così il silenzio distratto di quasi tutti i nostri media su una vicenda in cui si mostrano aspetti rilevanti della crisi italiana: il pestaggio di 176 detenuti avvenuto il 6 aprile 2020 in un braccio del carcere di Santa Maria Capua a Vetere.
I fatti
Proviamo a riassumere quanto scoperto da Nello Trocchia: per quattro ore circa 150 agenti della polizia penitenziaria tempestarono di pugni e calci indistintamente tutti gli ospiti di un braccio, colpevoli di aver richiesto mascherine anti-Covid con una protesta chiassosa; uno dei pestati, un giovane algerino che le cronache descrivono come schizofrenico (ma era quello il luogo idoneo per detenere uno schizofrenico) morì tre giorni dopo, presumibilmente a causa delle botte ricevute e non curate.
Possiamo dare per scontato che dopo pochi giorni una violenza così massiva e plateale fosse nota alle famiglie e ai legali dei picchiati, nessuno dei quali tuttavia la denunciò, neppure ai giornali, quasi si desse per scontato che una denuncia non avrebbe sortito altro effetto che esporre i detenuti alle rappresaglie delle guardie carcerarie: e qui già scopriamo una zona molto opaca del nostro stato di diritto.
Inoltre inquieta il fatto che il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria non avviò alcuna inchiesta interna: non sapeva cosa faceva il proprio braccio armato? O preferiva non sapere, ritenendo una certa quota di violenza necessaria per tenere a bada carceri sovrappopolate?
L’inchiesta interna scattò inevitabilmente dopo lo scoop di Domani, di pari passo all’inchiesta della magistratura. Seguito per così dire tradizionale: la ministra della Giustizia manifesta indignazione; 52 agenti, indagati, vengono sospesi (ma non licenziati per “violazioni dei codici di comportamento” propri del loro ruolo, come forse sarebbe stato possibile). Assisteremo a un processo complicato, come spesso accade quando gli imputati di violenze vestono un’uniforme.
Stando ai precedenti pagherà la bassa forza, gli alti funzionari non subiranno condanne, tantomeno il licenziamento per “mancato esercizio dell’attività disciplinare”. Il dipartimento correrà ai ripari e, in parte, già lo ha fatto: non ci saranno più spedizioni punitive nelle carceri italiane, o almeno non così plateali.
Ma a quanto si è visto in passato, l’insieme di questi interventi sarà il prodotto di compromessi e non avrà la radicalità necessaria a ristabilire un rigoroso canone di correttezza. In altri contesti e in altre forme, le violenze “di stato” riprenderanno.
Auto-normarsi
L’incapacità di correggersi delle amministrazioni pubbliche ha come premessa e risultato la frase che un agente scaraventa sui detenuti durante il pestaggio di Santa Maria Capua a Vetere: «Lo stato siamo noi!».
Non è soltanto un’intimidazione per scoraggiare le vittime: in sostanza l’agente rivendica il diritto suo e dei suoi compagni ad auto-normarsi al di fuori della legalità. È come se dicesse: la mia tribù ha occupato un segmento dello stato e in quel territorio, quando noi lo decidiamo, non c’è legge che possa opporsi alla nostra volontà.
Lo stato siamo noi! avrebbero potuto gridare vent’anni fa le varie tribù poliziesche e militari che durante il G8 di Genova decisero in piena autonomia, e senza input dall’alto, di “dare una lezione” ai dimostranti rifugiati nella scuola Diaz, e poi di seviziarne parecchi nella caserma di Bolzaneto.
Ovviamente il pestaggio di Santa Maria Capua a Vetere e quelli della scuola Diaz ebbero contesti e magnitudo assai diversi. Ma in entrambi i casi segmenti tribalizzati dello stato affermarono il loro diritto di comminare una punizione “esemplare” a chi li aveva sfidati e apparteneva a categorie umane impopolari (detenuti, no-global).
È verosimile che gli agenti in azione a Santa Maria Capua a Vetere si sarebbero frenati se le violenze al G8 non fossero rimaste grossomodo impunite, vuoi perché il processo fu di fatto sabotato dalle tattiche omertose messe in atto dalle tribù coinvolte, vuoi perché così vollero il ministero dell’Interno e una politica al solito tremebonda quando si rischiano reazioni delle forze dell’ordine.
Ma la questione è più generale: quel grido di battaglia – «Lo stato siamo noi!» – non risuona unicamente in caserme e penitenziari, e anzi pare il motto scritto in calce al patto ottomano che governa parte rilevante del settore pubblico.
Come nel declino la Sublime porta di fatto autorizzava i propri malpagati funzionari a prendersi notevoli libertà nell’esercizio delle loro funzioni, così in Italia varie amministrazioni rinunciano tacitamente a esercitare un controllo sulla condotta dei malpagati dipendenti, i quali a loro volta rinunceranno a contestare i comportamenti dei vertici burocratici e politici e non saboteranno i servizi pubblici al di là della loro tradizionale inefficienza. Nessuno pagherà, né chi dovrebbe organizzare decentemente né chi dovrebbe eseguire correttamente.
La rinuncia a punire
Anche in virtù di questo scambio ogni qualvolta un servizio pubblico si dimostra inadeguato la risposta della politica e dei media è sempre «aumentiamo le risorse» e mai «estromettiamo gli inetti», cominciando dai vertici ma senza fermarsi a quelli.
Per esempio, a tutti è chiaro che abbiamo una giustizia civile sgangherata, difetto che tra l’altro comporta un danno alla nostra economia: e quando se ne discute in genere si conclude appunto che occorre aumentare i cancellieri, i giudici, le corti. Eppure uno studio commissionato dal ministero e guidato da Roger Abravanel anni fa svelò che il problema non stava tanto nell’esiguità delle risorse quanto nell’inefficienza della maggior parte dei tribunali civili (97 su 140), ascrivibile innanzitutto ai presidenti: non erano capaci di razionalizzare l’organizzazione del lavoro.
Senza sottovalutare i vizi strutturali, dalla farraginosità delle norme con conseguente produzione di “burocrazia difensiva” all’incertezza e alla sovrapposizione delle competenze, è evidente che alle inadeguatezze concorrono colpe individuali. In genere assolte, o trattate con benevolenza, anche per ragioni ideologiche: a sinistra perché “i lavoratori” vanno sempre e comunque tutelati, a destra perché nel suo immaginario il dipendente pubblico tuttora corrisponde allo stigma diffuso dal berlusconismo: un travet inevitabilmente inetto, fannullone, incapace di iniziativa, tendente all’intrallazzo.
La rinuncia a punire consolida un sistema nel quale chi non ha le dovute “conoscenze”, una qualche rete di protezione, o la disponibilità economica per ricorrere a servizi privati, non riesce a mitigare il danno. In altre parole gli svantaggiati sono le fasce deboli della popolazione.
A fronte di tutto questo, abnorme non è il pestaggio di Santa Maria Capua a Vetere ma il fatto che, incredibilmente, tante guardie carcerarie svolgano il loro lavoro con una passione civile e una qualità quasi commoventi (e chi non lo crede consulti le associazioni del volontariato che operano nei penitenziari), in cambio di uno stipendio e di una considerazione sociale del tutto inadeguati.
In fondo, perché non dovrebbero tirare a campare come tanti colleghi? La stessa domanda potremmo porla a migliaia di straordinari dipendenti pubblici: maestre le cui tecniche sono studiate all’estero, poliziotti e militari che rischiano la pelle, infermieri coscienziosi ben oltre l’orario di lavoro, funzionari, magistrati, medici, insomma chi ancora assicura alla cosa pubblica una dignità e un onore. E probabilmente la risposta sarebbe: “Crediamo nello stato, e lo stato siamo noi”.
Ecco dunque due modi opposti di intendere quel «lo stato siamo noi». Le due antropologie convivono – stesso stipendio, spesso stessa carriera, nessun incentivo, nessuna sanzione – all’interno di amministrazioni votate all’inefficienza (quale organizzazione umana può funzionare se non dispone di un sistema adeguato di premi e di punizioni?).
Ma ora saremmo alla vigilia di un sommovimento storico: il governo sta procedendo a una riforma della Pubblica amministrazione, finanziata con il Piano nazionale di ripresa e di resilienza, che promette «un’enorme scommessa sul capitale umano pubblico».
Staremmo per salvare il soldato Ryan: presto la riforma raggiungerà la moltitudine dispersa di straordinari dipendenti pubblici e con norme e rinforzi li metterà nelle condizioni di operare in ambienti finalmente professionali, trasparenti.
E gli “ottomani”? Tenteranno di adattarsi oppure di svuotare quella che Brunetta definisce «la rivoluzione gentile»? Anche questo è in gioco nella vicenda di Santa Maria Capua a Vetere. Dove, a quanto si è visto finora, la rivoluzione è un po’ troppo “gentile” per essere davvero una rivoluzione.
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