Mi ero dimenticata di quanto sia giudicante il mondo quando si tratta di commentare le dinamiche familiari altrui, specialmente quando si intrecciano col dolore e la malattia. Mi ero dimenticata di quanto le persone - alcune, non tutte - si sforzino strenuamente di vendere al pubblico la favoletta rassicurante della famiglia perfetta, in cui i vestiti della domenica si indossano anche di lunedì e per cui la malattia, appunto, è un collante doloroso ma gentile. Dopo aver raccontato la triste decisione di portare mia madre malata di Alzheimer in forma ormai molto severa in una Rsa, ho ricevuto un certo numero di messaggi e commenti il cui succo era “hai i soldi, potresti tenerla a casa”, “i genitori non si parcheggiano in un istituto, si accudiscono come loro hanno fatto con noi da bambini”, “è una scelta egoistica” e così via.
Credo ci siano molte cose da spiegare. Io ritengo che l’accudimento sia una vocazione e che, se praticato senza una vocazione, sia una punizione inflitta non solo a se stessi ma anche a chi vorremmo accudire (il sacrificio imposto si avverte anche nella foga con cui si passa una spugnetta bagnata passata sul collo dell’ammalato).
Il caregiver
Anche nel caso in cui si abbiano il tempo e i mezzi per assistere un malato che, come nel caso di mia madre, non è presente a se stesso, non cammina, non è in grado di lavarsi, cambiarsi e nutrirsi da solo, la scelta di diventare un caregiver a tutti gli effetti, è una scelta che toglie autonomia anche a chi la compie.
Esiste “un’invalidità” subdola e sottovalutata non solo in certi malati, ma anche in chi li assiste. Nei figli, genitori, fratelli che decidono di prendersi cura del familiare malato congelando la propria esistenza, rinunciando a vacanze, tempo libero, spazi di leggerezza emotiva.
Il caregiver, spesso, sente di potersi muovere con le gambe, ma di essere immobile quanto chi accudisce. Questo non vuol dire non amare, non aver accolto la dimensione del sacrificio, ma è importante riconoscere l’immensa fatica che c’è dietro a scelte di dedizione assoluta.
Salta tutto
Chi pensa che decidere di non accudire un genitore ammalato sia un gesto egoistico, non sa. Ignora quanto male possa fare imporsi una scelta del genere e poi far respirare a un ammalato stanchezza e frustrazione per le privazioni inevitabili, per la quotidianità sconvolta.
Vuol dire ignorare quanti equilibri familiari saltino in aria, perché togli spazi al tuo tempo, perché i figli, le mogli e i mariti, a loro volta, non sempre comprendono la scelta di chi si immola o, se la comprendono, ne condividono la fatica e la malinconia. Entrano in crisi matrimoni, spesso non sopravvivono.
Chi pensa che tutti noi dovremmo accudire a casa un ammalato, non conosce l’impatto psicologico che la malattia ha su chi accudisce. E, qui sta la retorica più scivolosa, dà per scontato che il legame con l’ammalato fosse d’amore e d’affetto assoluti. Che il senso di riconoscenza debba abbattere ogni ostacolo.
E invece talvolta non si accudisce per senso di riconoscenza ma per senso del dovere, che è una fatica eroica, perché vuol dire sentire che è giusto così, anche se il malato non ti ha amato, non ti ha accudito, non ti ha protetto, ma si è limitato a metterti al mondo.
La frustrazione
Non si parla abbastanza di chi diventa caregiver con la frustrazione spesso celata di chi svolge la sua mansione per una specie di obbligo morale, perché un genitore o una sorella o uno zio non si abbandonano neppure se sono stati egoisti o crudeli e riescono ad essere irriconoscenti perfino mentre gli pulisci il sedere.
E scusate se sono cruda, ma mia madre è stata a sua volta caregiver di sua madre anche lei con l’Alzheimer per un anno, quando ero adolescente, e ho visto cosa vuol dire costringersi a prendersi cura di chi non si è preso cura di te, con quanto livore si imbocchi, si lavi, si pettini chi stai accudendo, certe volte.
Non so se quelle siano scelte migliori di chi decide di accompagnare un genitore in un istituto e di andarlo a trovare con la serenità che certe volte regala la distanza emotiva. E poi certo, c’è chi fa tutto questo con amore, ma la malattia quando ti abita in casa è un inquilino esigente e rumoroso anche quando l’ammalato è muto e immobile. Anzi, soprattutto. Cala una coltre spessa di malinconia, i medicinali occupano ogni comodino, la morte è un’idea che incombe e incupisce.
Se si hanno figli, li si costringe a vivere in una dimensione onesta ma uggiosa, ci si domanda sempre se sia giusto che respirino quell’atmosfera. E, spesso, nell’accudire senza sosta si finisce per cadere in depressioni tenaci. Per ammalarsi di una malattia silenziosa e raramente condivisa, perché la responsabilità impone di soffocare piagnistei.
I limiti
Ci sarebbe da dire anche molto altro, per esempio tutto quello che non riguarda l’abbattimento dello spirito, ma i problemi pratici. Non sempre un caregiver ha le abilità e le conoscenze per soddisfare le esigenze di una ammalato. Per interpretarle.
Talvolta non ha la forza fisica per sollevarlo da terra se l’ammalato scivola mentre sta seduto su un divano e non riesce a rialzarsi. Esiste l’assistenza domiciliare ma non sempre basta, non sempre si può contare su persone che si ammalano, hanno problemi familiari, partono, sono esseri umani pure se ormai li vediamo come il prolungamento sano dell’ammalato.
Esistono i problemi economici, le Rsa convenzionate con le Asl sono spesso lontane, la Asl quasi mai coprono tutte le spese, l’assistenza domiciliare costa anche lei, si entra nel tunnel nero della burocrazia che non si può delegare all’ammalato, si attinge ai propri risparmi, si lascia il lavoro, si litiga tra parenti perché qualcuno fa più di altri, ci si chiede se quella di un istituto, davvero, fosse l’unica strada. O se fosse solo quella di comodo.
Si convive con i sensi di colpa. Si va a trovare la mamma o il papà in una Rsa e in uno sguardo che si abbassa, in due occhi che ti fissano, all’improvviso, leggi qualcosa che somiglia a un rimprovero. O alla nostalgia.
Guardi gli altri parenti in visita agli ammalati, ti sembrano tristi, “portami a casa”, dice qualcuno sulla sedia a rotelle. Qualcuno urla, qualcuno, come mia mamma, fissa un punto lontano e non sai se quel punto è la sua infanzia o la scritta “ascensore”. Qualcuno sembra felice, accanto a nuovi amici, mentre mangia qualcosa al bar.
La malattia non è un fatto solitario. La malattia è la malattia della casa che un paziente abita. Del suo nucleo familiare. La malattia non aggiusta, non appiana, non unisce. Non sempre, almeno. Sconvolge equilibri e presenta conti emotivi per cui talvolta non si erano messi da parte risparmi a sufficienza.
Quando si deve decidere come prendersi cura di qualcuno – a patto che lo si possa decidere, perché succede anche che l’accadimento casalingo e solitario sia una strada senza scampo - non si guarda in faccia solo la malattia. Non si calcola solo il proprio spazio e il proprio tempo.
Si cerca un difficile equilibrio tra l’egoismo e la dedizione, tra il preservare la propria vita e l’altrui dignità. Tra il rancore e il perdono. Tra l’amore per ciò che è un genitore e la conservazione di ciò che si è.
Il tempo assale
È, soprattutto, entrare violentemente in contatto con le proprie fragilità, perché un genitore che si ammala senza ritorno, che entra in una Rsa è il tempo che ci assale. Il tempo in tutte le sue diramazioni.
Non è il passato, il presente o il futuro a preoccuparci. Sono tutti gli spazi temporali possibili, il passato che perderà un pezzo con la morte di una madre o di un padre, la fatica dell’oggi con le sue preoccupazioni e l’affacciarsi su ciò che un giorno sarà di noi, un presagio tanto inevitabile quanto sconosciuto finché i genitori non si ammalano.
Perciò ecco, se potete non giudicate il modo in cui noi altri ci prendiamo cura dei nostri genitori (quando almeno ci proviamo) perché credetemi: mentre lo facciamo, tentiamo anche di prenderci cura di noi, e ci vuole poco renderci tutto più difficile. Non dimenticatelo.
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