- Nel 1999 esce il libro dello chef inglese Fergus Henderson: il primo a teorizzare una cucina che utilizzi ogni parte dell’animale
- Oggi sono sempre di più i ristoratori che scelgono questo modello, per questioni ambientali e di soddisfazione culinaria
- Le domande senza risposta sono ancora molte: è questo un metodo più redditizio in termini economici? Il cliente è disposto ad accettarlo? È una scelta applicabile a ogni ristorante?
Nel 1999 nelle librerie comparve un libro per molti aspetti rivoluzionario. From nose to tail dello chef londinese Fergus Henderson non era un ricettario qualsiasi. Tra le pagine di questo volume c’erano piatti a base di interiora, orecchie di maiale, spalle e ossa… per chi aveva mangiato la cucina dello chef londinese non era una novità.
Già da qualche anno, infatti, Henderson– nel suo ristorante St. John a Londra – proponeva ai suoi clienti un piatto che ancora oggi è tra i più imitati e replicati, soprattutto in quei bistrot che vogliono dare un’idea di semplicità, sostenibilità e stravaganza: un osso diviso a metà, arrostito al forno o sul calore vivo della brace, servito con un pizzico di sale, del pane ben abbrustolito e un’insalata di prezzemolo un po’ acidula.
Questo piatto, preistorico e contemporaneo insieme, era la summa di un’idea di cucina che si proponeva un approccio alla carne molto diverso da quello che era di moda in quel momento (e che in buona parte continua a esistere): niente filetti e costate, o meglio, non solo quelli, ma tutto ciò che l’animale mette a disposizione, dal naso alla coda, appunto.
Rivoluzionaria tradizione
Se ci pensate, si tratta di un’idea tanto semplice quanto rivoluzionaria e tanto moderna quanto antica. «Del maiale non si butta niente» è uno dei detti più noti delle nostre campagne, eppure uno dei più trascurati. Dagli anni Novanta almeno, infatti, l’approccio più diffuso alla cucina è fatto di piatti semplici e veloci da cucinare, non troppo grassi e piuttosto universali in termini di sapore.
Se applichiamo questa idea alla carne il risultato è fatto di fettine da cuocere rapidamente in padella o costate da fare alla brace (nei giorni di festa), petti di pollo, filetti o braciole di maiale da cuocere al forno. Una manciata di tagli, tendenzialmente provenienti da un paio di parti anatomiche – la schiena e le cosce – ottenuti da animali allevati in batteria così da poter essere perfettamente rispondenti alla richiesta del mercato di una carne morbida e magra.
Un’idea che ha portato gli allevatori a modificare la struttura dei propri animali agendo sulla selezione genetica, sull’alimentazione e sul metodo di allevamento. Parafrasando quanto mi ha spiegato un professore di nutrizione a un convegno lo scorso anno: invece di limitare la quantità di carne da noi consumata, che sarebbe dovuto essere il nostro approccio per stare meglio, abbiamo affamato gli animali e li abbiamo modificati, eliminando il grasso, nella convinzione che in questo modo avremmo potuto continuare a mangiarne quanta ne volevamo.
Sprechi e abitudini
«Ancora oggi uno degli aspetti più complicati per chi come noi sceglie di usare animali di una certa età, allevati con attenzione e dei quali usiamo ogni parte, è far capire al cliente che la carne non si taglierà con il cucchiaio, ma sarà un poco più tenace, ma non per questo meno buona o saporita, anzi». A dire questo è Alessandro Belli, titolare del pub di Reggio Emilia, Arrogant. Belli ha scelto da qualche anno di servire nel suo locale – un pub che fa una cucina di territorio a partire da grandi materie prime quasi esclusivamente di prossimità – solo animali acquistati interi, direttamente dall’allevatore.
Ma non solo, la sua scelta, per quel che riguarda i bovini è di utilizzare vacche impiegate nella produzione di latte ormai troppo anziane per poter essere redditizie. «Noi siamo in una regione dove la vacca allevata è quasi esclusivamente da latte e utilizzare questi animali io credo sia un dovere. Si tratta di animali che normalmente vengono venduti a grandi gruppi che li macellano per farne carne tritata di scarsa qualità, noi invece, le ingrassiamo per un paio di mesi prima della macellazione, le frolliamo per un tempo sufficiente a distenderne le fibre e così facendo otteniamo carni più tenere e molto saporite. Certo, al cliente bisogna far capire che il filetto o la costata non ci possono sempre essere e che talvolta è costretto, se proprio vuole mangiare carne, a provare anche un hamburger fatto con la spalla, un diaframma alla griglia o un piatto di interiora… non è semplice, ma credo sia solo questione di tempo».
Uno dei problemi principali del modello di consumo costruito su filetti, costate, petti e cosce è che richiedono un enorme sforzo in termini di risorse destinate all’allevamento, per poi ottenere pochi chili di carne desiderata e molta che finisce per essere una sorta di scarto, anche se nobile, dalla quale l’allevatore guadagna poco e che però è costata molto in termini economici e ambientali. Utilizzare tutto l’animale riequilibra, almeno in parte, questa bilancia.
«Usare l’animale intero per me è sempre stata l’unica opzione possibile» dice Valeria Piccini, cuoca e titolare del ristorante Da Caino a Montemerano (Arezzo) e una delle migliori interpreti della cucina italiana degli ultimi trent’anni. «Sono cresciuta in campagna e da noi l’animale è sempre stato usato in ogni sua parte. Certo è più complesso, sia in termini economici che di gestione, ma è l’unico modo per poter fare un buon lavoro e per poter essere certi di offrire un prodotto davvero di qualità».
Più tempo e attenzione
Usare l’animale intero invece di qualche taglio richiede al ristorante più tempo, più conoscenze, più lavoro (e quindi anche più soldi) e, soprattutto, continua ricerca. A raccontarlo sono stati Riccardo Scalvinoni e Francesco Mastropietro del Colmetto di Rodengo Saiano (Brescia), un’azienda agricola con ristorante nella quale sono allevati principalmente capre e maiali.
«Da noi la capra, soprattutto quando di giovane età, è sempre stata cucinata intera arrosto e forse anche per questo non si è mai fatta una vera riflessione su questo modo di consumo sul quale invece forse varrebbe la pena soffermarsi un po’ soprattutto per capire quanto sia sostenibile a livello economico. Diverso è invece quando si ha a che fare con animali adulti. In questo caso, infatti, non ci può limitare a cuocere ogni parte allo stesso modo. L’animale va studiato per immaginare come i diversi tagli possano essere cucinati così da ottenere da ognuno il meglio, ma anche come vadano conservati, sapendo che probabilmente alcuni (magari quelli meno noti, ndr) verranno venduti più lentamente di altri e altri resteranno invenduti e per questi bisognerà pensare a una nuova via di consumo».
Usare l’animale intero quindi significa anche ragionare sul fatto che alcune parti potrebbero diventare salumi, altre forme di conserva, brodi e fondi così da far fruttare gli scarti iniziando a pensarli non come tali ma come una nuova risorsa dalla quale partire.
Ma c’è un altro elemento sottolineato da tutti i ristoratori con i quali ho parlato da citare: lavorare un animale intero richiede un surplus di attenzione rispetto al modo in cui lo stesso è stato allevato, in che modo è stato alimentato e come è stato macellato. Usare l’animale intero richiede quindi da un lato di sviluppare una vera sinergia tra allevatore e ristoratore, dall’altro di formare il cliente invitandolo a provare tagli che pur lontani dalla fettina alla quale è da sempre abituato possono essere altrettanto buoni e più adeguati ai nuovi tempi che stiamo vivendo.
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