- Nelle aree buddiste dell’Asia orientale, i prodotti che imitano la carne sono in voga almeno dal Quinto secolo avanti Cristo. Dall’arrivo del Buddhismo in Cina, Giappone e Corea, i monasteri preparano piatti vegetali che somigliano a piatti di carne e pesce
- Le proteine alternative alla carne non sono dunque una novità.
- L’inventiva dei cuochi asiatici è anche favorita dall’accessibilità della soia, originaria della Cina del Nord.
Per chi vive in Asia, la recente impennata di prodotti di “carne vegetale” è paradossale. Questa è la terra dove sono nati i sostituti della carne più usati prima che l’industria alimentare decidesse di produrre in maniera high-tech cibi composti da un insieme di proteine vegetali – di soia, di piselli o di riso, colorati con succo di barbabietola per il necessario effetto-sangue.
Da quasi due millenni, infatti, in Asia si producono derivati della soia e del grano che possono prestarsi, volendo, a imitare la carne. Si tratta in particolar modo del tofu, del seitan, e del tempeh e in alcuni casi di derivati proteici dei funghi. La soia è infatti originaria della Cina del nord, e ha da molti secoli fornito proteine digeribili e salutari anche a chi non può, o non vuole, consumare carne.
Il tofu qui non ha molto a che vedere con quello consumato in Europa o in America: questa cagliata di latte di soia, infatti, può assumere mille forme, sapori e consistenze, senza divenire quell’impasto blando e semi-duro che si trova nei supermercati italiani.
Un tofu differente
In Cina, il tofu può essere un morbidissimo e leggero budino condito con zucchero, frutta o sciroppi, per un dolce al cucchiaio del tutto salutare, saziante e squisito. Oppure, può essere indiavolati quadretti della consistenza di fette di formaggio stagionato, marinati in salse piccantissime, da mangiare come snack, o per insaporire il riso in bianco o la zuppa di riso consumata a colazione.
Il tofu fermentato, o furu, poi, è un condimento morbido e molto salato che si aggiunge in pentola insieme ad aglio, peperoncino e zenzero per insaporire verdure saltate o brasati misti. All’interno di questo ampio spettro ci sono tofu alle spezie più o meno induriti (dopo averli pressati) per poter essere utilizzati in ogni tipo di preparazione, capaci di assorbire i condimenti e rinfrescare il palato.
Il Giappone non è meno ricco di varietà di tofu, e fuori dall’Asia i prodotti fatti con la “panna” del tofu sono chiamati yuba, in giapponese, e non doufupi, in mandarino. È quello strato spesso che compare sulla superfice del latte di soia quando lo si fa bollire, e che viene poi sollevato con due bastoncini, e fatto essiccare o in sfoglie o arrotolato, in modo da creare un superconcentrato di proteine che, in bocca, ha una consistenza simile alla carne.
Poi ci sono tanti tipi di tofu fritti, con la superficie croccante e l’interno morbido, o le “buste” di tofu fritto giapponese, chiamate inari age, da riempire di riso e pezzettini di verdure. E tofu affumicato, o congelato (che da scongelato ha una consistenza molto diversa, che lo rende adatto a preparazioni particolari).
Gli altri prodotti
Se il tofu è utilizzato in innumerevoli maniere in tutta l’Asia orientale e del sudest, il tempeh invece è una delizia indonesiana (e malese) prodotta con fagioli di soia bolliti e inoculati con rhizopus oligosporus e fatta fermentare in panetti tagliati in diverse forme e fritti, come patatine, o utilizzati in varie pietanze. Il gusto ricorda quello del pollo, ma nessun volatile ci ha lasciato le penne.
E poi, c’è il seitan (di nuovo il nome giapponese è più noto all’estero di quello mandarino, mianjin, o “tendini di grano”) invece è fatto con la proteina del grano, il glutine, ottenuto creando un impasto di acqua e farina che viene poi sciacquato fino ad avere soltanto la massa del glutine, poi bollita, spesso con delle spezie, e tagliata a fette prima di essere utilizzata in cucina.
I costi di tutti questi piatti proteici sono molto ridotti rispetto a quelli della carne animale (anche a livello ambientale), e consentono a chiunque segua la religione buddhista mahayana (la scuola più seguita in Cina, Corea, Giappone e Taiwan), che non vede con favore il togliere la vita agli animali per nutrirsene, di mangiare a sazietà senza eccessive rinunce.
In sé il buddhismo non impone di essere vegetariani (nemmeno il Dalai Lama lo è) ma l’astenersi dall’uccidere esseri viventi per nutrirsene è considerata una pratica fondamentale per praticare la non-violenza (ahimsa in sanscrito) e mantenere un buon karma. I buddhisti indiani delle origini non erano vegetariani: quelli cinesi, sì, fin dal III secolo d.C. – in parte, pensano gli studiosi, per contraddistinguersi dalle altre religioni presenti in Cina che non si privavano di carne (come i taoisti, per esempio, sorta di ketoisti ante litteram, che rifiutavano ogni tipo di grano senza disdegnare le proteine animali).
Nel V secolo l’imperatore Wu Di della dinastia Liang (502-557), uno dei pochi imperatori buddhisti nella storia cinese, decise di codificare l’obbligo per i monasteri di essere vegetariani, e da allora la cucina monastica si è sbizzarrita in creazioni originali e gustose.
Oggi numerosi monasteri aprono i loro ristoranti al pubblico (molti credenti sono vegetariani almeno un giorno alla settimana), e nei paesi di tradizione buddhista è facile trovare ristorati che servono questa speciale cucina. I menù, le prime volte, possono essere destabilizzanti: pollo al limone, pesce alle spezie, agnello arrostito, anatra croccante? Niente paura, è tutto imitazione vegetariana.
Per un certo periodo ho cercato di chiedere a cuochi e proprietari di ristoranti vegetariani di ispirazione buddhista come mai ci fosse tanta enfasi sul riprodurre piatti di carne, dall’aspetto così convincente da lasciare timorosi di star mangiando qualcosa di ben diverso dalle descrizioni.
Molti, come la proprietaria di Elaine a Shunyi, nella periferia di Pechino, al lago Luoma, rispondono che si tratta di una tradizione che scatena la fantasia. La spiegazione più suggestiva però mi è stata data da una monaca al monastero Wenshu di Chengdu, nel Sichuan, secondo la quale i piatti che sembrano carne, che non sono di consumo quotidiano per chi fa vita monastica, sono stati sviluppati per i banchetti serviti ai donatori dei templi. Per celebrare il loro patrocinio, e ringraziarli, i banchetti avrebbero previsto carni e pesci in abbondanza: e così, fra tofu ricoperto di alghe per conferirgli un gusto marino, e proteine vegetali tagliate come pezzetti di pollo, lo spirito della festa era mantenuto, senza danneggiare il karma di nessuno.
Dagli anni Duemila si è diffusa in Cina la moda di ristoranti vegetariani sì, ma di lusso, come il Pure Lotus a Pechino, dove oggi si spendono alcune centinaia di euro per manicaretti impiattati con grande attenzione all’effetto sorpresa, fra fumi colorati, fiori e foglie che piazzano il cibo in una mini-foresta, e ceramiche complesse ed enormi.
O come il Wujie di Shanghai, con una stella Michelin, che ha un approccio più minimalista ma di un’attenzione estrema a sapore, consistenza in bocca, e impiattamento, in modo da poter essere sì più spirituali e salutisti, ma non per questo rinunciatari.
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