Il gup di Palermo ha condannato in un processo abbreviato Sohel e Md, cittadini bengalesi, torturatori nel centro di detenzione di Zwara, per i reati di associazione per delinquere volta a commettere altri reati come tortura, sequestro di persona a scopo di estorsione, favoreggiamento dell’immigrazione clandestina
Sono stati condannati a vent’anni di reclusione Pazurl Sohel e Harun Md, due cittadini bengalesi torturatori dei centri di detenzione di Zwara, in Libia. A deciderlo il giudice dell’udienza preliminare del tribunale di Palermo, che ha accolto la richiesta della procura nell’ambito di un procedimento abbreviato.
- Si tratta dei reati di associazione per delinquere per la gestione di un centro illegale di prigionia, «dove centinaia di migranti venivano privati della libertà personale e sottoposti a sistematiche vessazioni e atrocità» per ottenere dalle famiglie un sostanzioso riscatto per la liberazione o per la partenza verso l’Italia. Si parla di 5mila dollari ciascuno. I due avevano il compito di imprigionare i migranti, torturarli e ottenere il riscatto. Sono poi stati condannati per il reato di tratta di persone, aggravato dal carattere transnazionale dell’attività del gruppo, di sequestro di persona a scopo di estorsione, tortura e favoreggiamento dell’immigrazione clandestina.
- L’indagine mette in luce le condizioni dei centri di prigionia libici, illegali, in cui i migranti sono rinchiusi in strutture con alte mura, sorvegliati con l’uso di armi, sottoposti sistematicamente a violenze e tortura, approfittando della situazione di inferiorità e riducendoli in schiavitù.
- Il caso nasce dai racconti di quattro migranti originari del Bangladesh, arrivati a Lampedusa il 28 maggio 2020, poi trasferiti a Ragusa. Spiegarono che due dei loro carcerieri della Safe house di Zwara, da cui subivano torture quotidiane, sarebbero arrivati in Italia con uno sbarco successivo al loro.
- Attraverso i profili Facebook, la procura è riuscita a risalire allo sbarco e ha sottoposto Sohel e Md al fermo ad Agrigento. Le identità sono poi state confermate, in un incidente probatorio, dai migranti che hanno mostrato i video delle torture e del pagamento del riscatto. La conferma è arrivata anche dalle foto presenti su Facebook, in cui impugnavano i kalashnikov Ak-47, con cui picchiavano i migranti.
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