- Con un decreto urgente la regione Friuli Venezia Giulia ha consentito l’assunzione temporanea di personale sanitario in possesso di un titolo di studio non riconosciuto dal ministero della Salute. Si tratta di medici laureati in paesi extra-europei.
- La crisi del Servizio sanitario nazionale fa saltare le regole che si erano fino ad ora imposte per garantire la qualità professionale di chi si prende cura della nostra salute.
- È importante riconoscere i gravi deficit di programmazione e comprendere la crescente disaffezione nei confronti della professione medica.
Con un decreto urgente la regione Friuli Venezia Giulia ha introdotto alcune deroghe alle norme in materia di riconoscimento delle qualifiche professionali sanitarie che consentono l’assunzione temporanea di personale sanitario in possesso di un titolo di studio non riconosciuto dal ministero della Salute.
In particolare, la delibera prevede l’impiego di medici e infermieri di paesi non appartenenti all’Unione europea purché titolari di un permesso di soggiorno e di un titolo di studio conseguito all’interno dell’Ue.
In alternativa, i professionisti non comunitari potranno presentare una dichiarazione, rilasciata dall’Autorità consolare italiana del paese non europeo dove sia stato conseguito il titolo, nella quale si afferma che quest’ultimo soddisfa pienamente le direttive Ue.
«Per fornire un’adeguata risposta alla grave carenza di personale, rafforzando così l’attività assistenziale sul territorio del Friuli Venezia Giulia», dice l’assessore alla Salute Riccardo Ricciardi. Tradotto in termini più semplici, medici di ogni parte del mondo con una formazione non riconosciuta dal nostro ministero della Salute, ma solo da un ufficio consolare, verranno assunti per tappare i buchi altrimenti incolmabili di una sanità ospedaliera e territoriale dove nessuno vuole più lavorare.
Stop a tutte le regole
Poiché i problemi non sono solo del Friuli Venezia Giulia, è probabile che decisioni analoghe verranno prese nelle prossime settimane anche da altre regioni, contribuendo a dare un’ulteriore picconata alla qualità del Servizio sanitario nazionale.
Per essere espliciti fino in fondo, non solo saranno accettate lauree in medicina prese in (quasi) qualunque paese del mondo, ma non verrà neppure richiesta una specializzazione (oggi obbligatoria per essere assunti in ospedale) e soprattutto non si faranno concorsi o se si faranno saranno concorsi burla, visto che gli iscritti saranno per definizione meno dei posti disponibili.
Se è per fortuna possibile che molti dei professionisti stranieri che chiederanno di lavorare in Italia abbiano ottime competenze, questo non può giustificare la debacle di un sistema che sceglie di rinunciare a tutte le regole che si era fin qui imposto per garantire la qualità professionale di chi si prende cura della nostra salute.
Soluzioni estreme come questa non nascono ovviamente dal nulla e obbligano a riflettere sulle cause che ci hanno portato fino a questo punto, alcune delle quali non riguardano per la verità solo il nostro paese.
Il primo problema sta senz’altro in un grave deficit di programmazione. A fronte del fatto che da tempo fossero noti tanto l’invecchiamento della classe medica (oggi il 54 per cento dei medici italiani ha più di 55 anni) quanto il conseguente picco di pensionamenti che si sarebbe verificato in questi anni, nulla è stato fatto per adeguare l’offerta.
Per fare un esempio, si sarebbe dovuto ricalcolare per tempo il “numero chiuso” per le iscrizioni alla facoltà di medicina e chirurgia, visto che un intervento di questo genere richiede tra i 6 e i 10 anni prima di produrre una nuova generazione di medici in grado di reintegrare chi abbia abbandonato la professione.
Ancora di più, sarebbe stato importante fare un’analisi su come siano impiegati i medici in Italia, visto che, nonostante le carenze in ospedale e sul territorio, il numero di medici per mille abitanti si situa ancora ampiamente nella media europea. È possibile dunque che ad aree territoriali o professionali di carenza corrispondano altrettante aree di eccesso numerico, magari in ambito privato o libero professionale.
Un secondo punto, che è proprio di questi ultimi tempi, è una sorta di disaffezione che si percepisce nei confronti della professione medica il cui ruolo sociale è senz’altro molto cambiato negli scorsi cinquant’anni. Il rispetto reverenziale di cui il medico godeva da parte dei suoi assistiti è poco più di un pallido ricordo.
Le cause di malpractice (il 95 per cento delle quali si conclude con l’assoluzione) sono decine di migliaia ogni anno. Gli orari di lavoro negli ospedali sono sempre più pesanti e la cosa grava soprattutto sulle donne che oramai prevalgono numericamente sui loro colleghi maschi.
Sarebbe importante capire se sono queste, o altre, le ragioni per cui la medicina pubblica sembra attrarre i giovani meno che in passato. La pandemia ci ha di sicuro messo del suo, ma non dobbiamo cedere alla tentazione di imputare al COVID i tanti cambiamenti sociali e del mondo del lavoro che oggi fanno sentire i loro effetti anche sulla medicina e sulla nostra salute.
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