- Il caso Pinchiorri e la conferma delle tre stelle Michelin alla nota enoteca fiorentina fa emergere un tema: perché non si può parlare di molestie nel settore della gastronomia? Alcuni chef o guide, come nel caso del Gambero Rosso, hanno deciso di non rispondere alle nostre domande.
- Eppure il problema esiste: sono diversi i casi di cronaca che raccontano di giovani cameriere o cuoche molestate nel posto di lavoro, altre preferiscono restare anonime o non denunciare.
- Il direttore delle guide l’Espresso, Enzo Vizzari ripropone una sua celebre frase: «Se Hilter avesse avuto un ristorante avrei sentito il dovere di recensirlo». Cristina Bowerman: «Il valore etico di un ristoratore, nel momento in cui c’è l’assegnazione di un premio e una sentenza della magistratura, deve essere parte integrante del giudizio».
È giusto che di un ristorante si valuti la cucina, ancorché di altissima qualità, e ci si giri dall’altra parte se al suo interno vengono commessi abusi nei confronti delle donne che vi lavorano? Il patteggiamento della pena per stalking da parte di Giorgio Pinchiorri, proprietario della nota enoteca di Firenze che porta il suo cognome, e la conferma delle tre stelle da parte della giuda Michelin ha posto al mondo dell’enogastronomia una domanda alla quale si fatica a trovare risposte.
Questi i fatti: a fine ottobre il celebre sommelier, Giorgio Pinchiorri, ha patteggiato una condanna di quattro mesi per stalking nei confronti di una giovane donna, oggi 35enne, che a suo tempo era stata dipendente del ristorante e che poi sarebbe stata costretta a dimettersi per evitare le sue ossessive attenzioni.
Poche voci
Abbiamo chiesto alla Michelin di poter parlare con il direttore italiano, Sergio Lovrinovich, ma non è stato possibile porre nessuna domanda. L’unica, laconica, risposta è stata che «la Michelin non commenta questioni private».
La letteratura sulla materia non è molta, una delle poche testate a porsi il problema e a dare spazio a esperienze di mobbing e molestie nella ristorazione è stata Vice Italia, in un lungo articolo di ormai due anni fa nel quale alcune persone hanno deciso di parlare (in anonimato) di quello che hanno vissuto.
Una delle intervistate ha raccontato di alcune molestie subite durante la sua esperienza in uno stellato italiano: prima commenti di cattivo gusto relativi alle sue foto Instagram, poi palpeggiamenti e, infine, messaggi notturni da parte dello chef. Episodi che non fanno una statistica ma che evidenziano come il problema sia reale.
Cristina Bowerman, chef stellata del ristorante Glass Hostaria a Roma, sostiene che il problema esiste «come in altri campi professionali». È d’accordo, dunque, che si debba sollevare il tema a livello generale «ma senza mettere alla gogna ristoranti e ristoratori per accuse non accertate» dalla magistratura.
«Solo e soltanto nel caso di accertamenti e sentenze, allora sì il giornalista e le guide devono prendere in considerazione il tema delle molestie e dello sfruttamenti dei lavoratori». Contrariamente alla Michelin, Bowerman ritiene che «il valore etico di un ristoratore, nel momento in cui c’è l’assegnazione di un premio, deve essere parte integrante del giudizio non può essere eliminato», e che «nel caso di molestie sessuali, riscontrate da una sentenza, allora deve essere preso in considerazione».
Solo negli ultimi quattro mesi la cronaca racconta di diversi casi di questo tipo. Una ragazza molestata all’interno di un noto ristorante di Trastevere a Roma, una cameriera a Civitavecchia che ha ricevuto la proposta di un avanzamento di carriera in cambio del silenzio sugli abusi sessuali commessi dal datore di lavoro. E ancora un cuoco di Sestri Levante, accusato di violenza sessuale nei confronti di una collega, ha patteggiato un anno di carcere.
Viviamo a ridosso della rivoluzione culturale del movimento MeToo, che dovrebbe essere ormai essere patrimonio di chi si occupa di cultura del cibo eppure è veramente difficile sollevare questo argomento. Federico Scavetta, avvocato della ragazza che ha denunciato Pinchiorri, spiega a Domani in parte il perché: «La ragazza non vuole parlare, lavora sempre nell’ambito che è un circolo ristretto. Pinchiorri è un’eminenza. Si sa che se uno vuole continuare a lavorare in quel tipo di settore deve sottostare a certe regole e deve stare attento anche a ciò che si dice».
Diversi chef hanno deciso di non esprimersi né sul caso Pinchiorri né sul tema generale. Abbiamo inviato al direttore responsabile del Gambero Rosso, Paolo Cuccia, che pubblica una delle più prestigiose guide italiane, alcune domande per capire se è necessario che le valutazioni tengano conto anche del trattamento dei lavoratori e capire cosa possono fare realtà come la loro sul tema del contrasto alla violenza sulle donne.
Il direttore ha declinando gentilmente la richiesta in quanto, nonostante si tratta di «argomenti estremamente importanti», non ritiene che rientrino «nel campo di analisi delle attività del Gambero Rosso, non riteniamo utile ai suoi fini fornirle un contributo sull’argomento». In effetti, né il sito né la rivista ha trattato l’argomento Pinchiorri.
Ha deciso di parlare, invece, il direttore delle guide l’Espresso, Enzo Vizzari. Mettendo subito in chiaro il proprio punto di vista: «Se Hilter avesse avuto un ristorante avrei sentito il dovere di recensirlo». Vizzari non vede «un nesso tra quello che scrive una guida gastronomica» e casi relativi a molestie o abusi, come nel caso Pinchiorri. E ripropone una sua frase celebre: «In un altro contesto, al di là della scheda della guida, direi che non andrei mai a mangiare gli spaghetti di Hitler».
I tempi, quindi, non sono maturi per aprire questo tema anche all’interno delle recensione e dei premi? «La cucina la valuto per il gusto, le cotture, l’originalità. Se voglio allargare il discorso ad altri aspetti, assolutamente pertinenti, lo faccio in un contesto diverso, non quello della critica gastronomica», aggiunge.
«Capisco un direttore di una guida che sostiene di essere un semplice fotografo, un fotografo però sceglie cosa fotografare», ribatte Luca Iaccarino, giornalista e critico del Corriere della Sera, che ha svolto una serie di interviste ad alcuni filosofi sull’etica nella buona cucina. Racconta che «la cosa che più mi ha convinto l’ha detta Franca D’Agostini, allieva di Gianni Vattimo, ovvero che rileggere Heidegger dopo la prova della sua adesione al nazismo modifica inevitabilmente il giudizio”.
Visto da fuori
All’estero l’argomento ha un eco ancora ridotto ma è partito un accenno di dibattito. Un anno fa Libération si è occupato del maschilismo in cucina in una lunga inchiesta dove ha raccolto numerose testimonianze di donne e uomini che hanno lavorato nell’alta cucina.
Negli Stati Uniti, anche per alcuni casi di cronaca, l’elaborazione del tema ha compiuto qualche passo in più. Pochi mesi fa lo chef Mario Batali e l’ex socio in affari Joe Bastianich sono stati obbligati a pagare 600mila dollari di risarcimento per episodi di molestie sessuali avvenute nei ristoranti di cui i due erano proprietari.
Un articolo interessante è stato pubblicato tre anni fa dal New Yorker: “One year of #MeToo: a modest proposal to help combat sexual harassment in the restaurant industry” indaga la prospettiva del movimento femminista anche nell’ambito della ristorazione, raccontando che le molestie nell’ambito non sono affatto una novità recente.
Più recentemente One Fair Wage, un’associazione statunitense che si occupa di equità salariale, in un report ha coniato il termine MASKual Harassment per descrivere il fenomeno della molestia sessuale ai tempi del coronavirus e dei clienti che lasciano più mance se le lavoratrici si abbassano la mascherina per poterne valutare l’aspetto fisico.
Brett Andreson, giornalista del New York Times, si è occupato a lungo degli abusi sessuali nei ristoranti e in particolare ha lavorato a una lunga inchiesta che ha portato a una serie di accuse nei confronti del Besh Restaurant Group e alle dimissioni dell’allora socio, lo chef John Besh.
Troppi uomini, anche a Masterchef
Il settore è ancora profondamente maschilista. Lo ha ricordato due anni fa la chef stellata Viviana Varese, durante il “Premio Libellula”: «Prima del Novecento nelle cucine dei ricchi c’erano solo donne. Poi, quando gli uomini hanno capito che in quel mestiere poteva esserci prestigio e soldi, le donne hanno iniziato a esserne escluse e tutt’oggi, ad alti livelli, è così». Bowerman sostiene che «sicuramente le cose sono migliorate perché l’argomento è venuto a galla ma il settore è ancora profondamente maschile».
È recente il caso che ha coinvolto uno dei più prestigiosi chef al mondo: il francese Yannick Alléno. A settembre 2019, si è tenuta una conferenza di alto livello sulla gastronomia organizzata da The World’s 50 Best Restaurants (concorrente anglosassone della Michelin). Con l’argentino Mauro Colagreco e i francesi Alain Passard, Bertrand Grébaut, Romain Meder e Alléno si parlava di cucina come ricerca e apertura al nuovo. Un giornalista, Fulvio Zendrini, si è alzato e ha chiesto: «Sì, ma le donne dove sono?».
Alléno ha ribattuto così: «Mi spiace, ma ci sono impedimenti strutturali. Molte donne ci chiedono di lavorare a mezzogiorno perché la sera devono occuparsi dei bambini. Noi uomini siamo fortunati, le donne pensano ai figli, ce l’hanno nel dna».
In Italia l’esclusione avviene anche in tv. Basti pensare alla competizione gastronomica più famosa: Masterchef. In dieci edizioni solo una giudice donna, Antonia Klugmann. Dopo un anno ha preferito tornare a occuparsi a tempo pieno del suo ristorante, L’argine di Vencò. Due anni fa Gianfranco Vissani ha tagliato corto: «Le donne in cucina? Crollano tutte. Io le metto in pasticceria». La strada per cambiare un mondo chiuso, generalmente piramidale, conservatore e corporativo come quello della cucina, delle sue brigate, e dei critici che vi ruotano attorno è ancora lunga.
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