- Prima di Abramovich il Chelsea aveva vinto soltanto un campionato nazionale a metà Anni Cinquanta. Prima degli emiri il Manchester City aveva vinto soltanto due campionati, l’ultimo nel 1968. Adesso sono le squadre più forti d’Europa.
- La loro scalata rappresenta fedelmente una mutazione genetica del calcio inglese, che si è ibridato in termini stilistici e identitari e adesso, in piena Brexit, guarda con degnazione il ‘continente isolato’.
- I due allenatori, Guardiola e Tuchel, sanno che non possono sbagliare: né per i loro club, né per sé stessi. Un’altra sconfitta e l’ossessione-Champions si aggraverà. Ma una delle due parti se la dovrà trascinare almeno per un’altra stagione.
Made in England. L'inedita finale di Champions League, dislocata in extremis da Istanbul a Oporto causa Covid, propone motivi forti e segna il culmine del dominio inglese sul calcio europeo. Dato curioso, quest'ultimo, che si verifica giusto nel primo anno intero di Brexit. Come a dire che il continente era isolato e allora bisognava andare a farci un giro per vedere come se la stesse passando.
Che poi a fare quel giro siano state mandate le due squadre che più di tutte incarnano la mutazione genetica turbo-finanziaria del calcio inglese è cosa non soltanto simbolica. Perché Chelsea-Manchester City è la perfetta rappresentazione della via inglese alla conquista del potere calcistico mondiale. Una via costruita sull'edificazione di uno strapotere economico cui la concorrenza europea continua a non trovare antidoto. Ma strutturata anche grazie a una trasformazione culturale, stilistica ed estetica condotta in modo deciso, a tratti brutale, nei confronti dello stesso calcio inglese. Che infatti adesso è la cosa più vicina all'ecumene globale che si possa immaginare in campo calcistico.
Una macchina da spettacolo e risultati (agonistici ed economico-finanziari) diventata progressivamente invincibile grazie alla capacità di ibridare il meglio degli stili nazionali portati nell'isola dai calciatori provenienti da ogni angolo del pianeta, tutto o quasi il meglio disponibile sul mercato. Ciò che ha portato alla definitiva musealizzazione dell'arrembante stile “long ball”, imperante fino all'alba degli Anni Novanta.
Di questa mutazione genetica proprio Chelsea e Manchester City sono la massima rappresentazione. Entrambi club approdati alla grandezza calcistica con l'avvio del Ventunesimo secolo dopo aver vissuto esistenze modeste durante il Ventesimo. Entrambi capaci d'imporsi grazie alla smisurata forza del denaro, pompato da proprietari dalle disponibilità inimmaginabili. Inizialmente mal sopportati dalla concorrenza nazionale e internazionale, trattati come parvenu, ma infine in grado di imporre la forza dei fatti man mano che venivano realizzati.
La finale di stasera è tutta loro e racconta di un duello che si verifica su un duplice piano: quello delle due società di calcio e delle rispettive proprietà, ansiose di affermare definitivamente il proprio modello di capitalismo calcistico; e quello dei due allenatori, che sul terreno dell'Estadio do Dragão devono scacciare l'ossessione della Champions. Uno dei due dovrà portarsela dietro almeno per un'altra stagione.
Oligarchi vs Emiri
Prima che arrivasse Roman Abramovich il Chelsea aveva vinto soltanto una volta il campionato inglese, nel lontano 1954-55. Dopo l'approdo dell'oligarca russo ne ha vinti cinque e si è affermato come una potenza del calcio nazionale ed europeo. Dal canto suo, prima che arrivassero gli emiri da Abu Dhabi, il Manchester City aveva vinto soltanto due campionati nazionali, l'ultimo dei quali nel 1967-68. Dopo l'arrivo del principe Mansur bin Zayd al Nayan ne ha vinti cinque.
Per entrambi i club gli Anni Zero del Ventunesimo secolo sono stati la rampa di lancio per l'attacco al potere calcistico, vissuto dalle concorrenti nazionali con insofferenza e guardato con sospetto nelle stanze dell'Uefa. L'invenzione del Fair Play Finanziario viene sollecitata giusto da exploit come quelli dei due club finalisti di stasera, o del Paris Saint Germain, altro club cresciuto con dinamica estrogena grazie all'esorbitante iniezione di capitali provenienti dal Qatar.
Nel breve volgere di un quindicennio i due ex club modesti sono diventati colossi da Superlega europea, quando ancora nel tempo in cui veniva fondato il G-14 (la lobby delle società europee più ricche e potenti, inaugurata ufficialmente nell'anno 2000) erano realtà secondarie nel loro paese. Il Chelsea era squadra di seconda fascia a Londra, il Manchester City era addirittura etichettato come «i cugini rumorosi» dal giudizio sprezzante di sir Alex Ferguson, manager-santone del Manchester United. Da allora sono cambiate molte cose. Le due squadre sono potenze di primo piano del calcio nazionale e dunque anche di quello europeo, perché ormai primeggiare in Inghilterra significa primeggiare sulla scena globale. E a questo punto manca a entrambe il sigillo della Champions.
Il Chelsea l’ha vinta una volta, nel 2011-12, ma in modo talmente avventuroso da essere accolto con degnazione da Abramovich. Che non amava per niente il condottiero di quell'exploit inatteso, l'italo-svizzero Roberto Di Matteo (ex centrocampista della Lazio), allenatore interinale piazzato in panchina al posto dell'esonerato André Villas-Boas. Di Matteo gli ha portato la coppa più attesa, che quattro anni prima era stata persa in finale contro l'altro Manchester, lo United. E Abramovich, con somma gratitudine, pochi mesi dopo lo ha licenziato. Da allora la vita del Chelsea in Champions è stata grama e giusto stasera c'è la possibilità di cambiare la storia. Altrettanta ossessione Champions per il Manchester City, che ha dominato gli Anni Dieci del calcio inglese ma nella principale competizione europea non era mai andato oltre i quarti. La finale di Oporto è un appuntamento con la storia vissuto con una certa ansia su entrambi i fronti. Vincerà chi avrà meno paura.
Pep vs Thomas
Anche in panchina la tensione non sarà da meno. Perché i due allenatori, sia pure con tempistiche diverse, rischiano di vedere nella massima coppa europea un'ossessione.
Pep Guardiola l'ha vinta due volte nel 2008-09 e nel 2010-11 alla guida del Barcellona. Ma nell’ultima stagione barcellonista si è visto eliminare in semifinale giusto dal Chelsea guidato da Di Matteo (pessimo precedente) e da allora non è più riuscito a vincerla nonostante abbia guidato corazzate come il Bayern Monaco (che con Heynckes alla guida l'aveva portata a casa giusto nelle settimane che precedevano il suo arrivo) e il Manchester City. Stasera sarà davanti a un'altra svolta della carriera.
E lo sarà anche Thomas Tuchel, giovane tecnico tedesco chiamato a stagione in corso per aggiustare la rotta del Chelsea dopo la falsa partenza condotta da Frank Lampard. Tuchel era stato da poco esonerato dal Paris Saint Germain, che pure nella scorsa stagione aveva portato in finale di Champions. E adesso ci ritorna mentre la squadra parigina ammaina bandiera pure in campionato. Una straordinaria rivincita. Che però rimarrebbe incompiuta, e si trasformerebbe in beffa, se arrivasse la seconda consecutiva finale persa. L'etichetta di perdente di successo, anche no. Per questo Tuchel incrocia le dita più di Guardiola. Buona finale a entrambi.
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