- La cucina popolare era quella del sottoproletariato agricolo, talmente ignorante – nel senso di ignaro - che riusciva a morire di fame pur coltivando la terra, soggiogato com’era dai padroni
- Il passaggio da una vecchia a una nuova cucina popolare, per lo chef della Darsena, è nella consapevolezza, essere coscienti di ciò che mangiamo, anche se lo prendiamo a morsi tra le bancarelle di un mercato
- Al banco ci sono cuochi in grado di sezionare un animale, di fare il pane, di riconoscere centinaia di formaggi, di capire le reazioni chimiche e fisiche che può avere un ingrediente
Macellaio, affinatore di formaggi, panettiere. Giuseppe Zen è innanzitutto un cuoco, uno che cucina tutto il giorno dietro al banco della sua Macelleria Popolare, nel mercato coperto della Darsena di Milano. Quell’aggettivo, popolare, è suonato strano a tanti, quasi nove anni fa, quando Zen alzò la claire del negozio e mostrò i cartellini dei prezzi delle sue carni. Diciamo importanti, per molti cari.
Oggi c’è una clientela consolidata di acquirenti, ma soprattutto c’è una fila paziente di persone che il venerdì e il sabato sera aspettano il loro turno per bere un bicchiere di vino – etichette per lo più “naturali” – e mangiare una bombetta, un hamburger o qualche polpetta. Un “aperitivo popolare” potremmo chiamarlo, a patto che sia chiaro il significato che questa parola ha per lo chef. Chiedo di spiegarmelo un lunedì mattina, quando i banchi sono per lo più chiusi e lo trovo che raccoglie, a mani nude, le cicche di sigarette gettate sui tavoli che affacciano sul Naviglio Grande e tra le piantine di insalata che lui si ostina a ripiantare.
Grande cucina al mercato
Prepara il caffè con la moka e mangiamo qualche pezzetto di pan di spagna: «Tecnicamente parlando la cucina popolare», inizia Zen, «era quella del sottoproletariato agricolo, talmente ignorante (nel senso di ignaro) che moriva di fame pur coltivando la terra, soggiogato com’era dai padroni. Oggi, se a te e a me danno due metri quadrati di terra diamo da campare a due famiglie. Dov’è la differenza quindi? Nella conoscenza e poi nella scelta». Il passaggio da una vecchia a una nuova cucina popolare, per lo chef della Darsena, è quindi nella consapevolezza, essere coscienti di ciò che mangiamo, anche se il cibo lo compriamo per strada, se lo consumiamo in piedi e lo prendiamo a morsi tra le bancarelle di un mercato.
Un approccio che cambia necessariamente anche i prezzi di ciò che scegliamo: «Chi l’ha detto che il cibo di strada, lo street food, debbano costare poco? E pure è così e il costo basso è giustificato dalla pessima qualità dei prodotti usati. Sai quanta paghi mediamente un pani câ meusa (panino con la milza) nei mercati di Palermo? Intorno ai quattro euro, da me dai dieci ai dodici, perché il polmone lo friggiamo al momento nel grasso dei miei fondi e non messo a mollo nello strutto per tutta la giornata, usiamo lievito madre e farine biologiche per il pane e grattugiamo sulle interiora buccia di Sfusato di Amalfi o di Verdello di Siracusa (entrambi agrumi, ndr). Metti così una veste nobile a un cibo solo apparentemente sciatto».
Altro preconcetto, infatti, secondo Zen è quello di una cucina popolare greve, unta, goduriosa ma indigeribile. Al banco della sua macelleria trovi molte delle ricette più famose dello street food italiano (stigghiole, arrosticini, lampredotto, mondeghili, ribollita e altro ancora) ma la preparazione è da ristorante fine dining perché – e questo è un punto centrale della discussione su vecchia e nuova cucina popolare – lui è un cuoco: «Siamo in quattro in verità e arriviamo a sei nei fine settimana. Non siamo lavapiatti prestati ai fornelli, ma cuochi in grado di sezionare un animale, di fare il pane, di riconoscere centinaia di formaggi di capire le reazioni chimiche e fisiche che può avere un ingrediente».
Tradizionale più che popolare
Oltre a Macelleria Popolare, Zen ha altri due banchi nel mercato di Porta Ticinese, Resistenza Casearia dove vende solo formaggi a latte crudo e Panificio Italiano. Se potesse (ma a suo dire manca un personale davvero motivato a suo dire) ne aprirebbe altrettanti: «Una baccalaria, ad esempio, come quelle che trovi a Lisbona, con differenti stagionature del pesce; un ortofrutta biologico con cibi già preparati, tipo delle patate cotte, sale, pepe, un uovo su e mangi da dio».
Se avesse suonato altrettanto bene, Zen avrebbe scelto per la sua l’insegna il nome “Macelleria Tradizionale”, perché, per lui, è la cucina tradizionale ad avere un futuro, quella tramandata oralmente, passata di mano in mano e che ha saputo però accogliere le evoluzioni che inevitabilmente ci sono, avanguardia gastronomica compresa: «Oggi», continua il cuoco, «non puoi prescindere dalla richiesta di un cibo sano, dove il buono coincide con il far bene. Una cucina sì più leggera, ma dove il sapore rimane centrale, nitido. Tutto questo significa tanta ricerca. Io chiudo l’attività per tutto il mese di gennaio per andare a cercare nuovi fornitori. Significa un mese senza incasso, ma solo così sono certo di quello che offro perché verifico di persona». Zen lavora un’intera mucca a settimana che, tolti i denti, si vende tutta.
Il 70 per cento degli introiti sono legati alla somministrazione al banco, il restante è legato alla macelleria per una clientela disposta a spendere bene per la carne in vendita: «Sono il primo a dire», sottolinea Zen, «che non c’è la necessità di mangiarla spesso, basta una volta ogni quindici giorni, ma arriva da allevamenti grass fed, cioè animali nutriti soltanto ad erba. Non macelliamo niente che non abbia almeno sei anni di vita, mentre la maggior parte delle vacche va al mattatoio tra i 14 e i 18 mesi di vita. Questa è la ragione per cui non ho pollo né maiale perché non ho ancora una filiera che mi garantisca qualità e continuità».
A Macelleria Popolare c’è un tale rispetto per la carne che questa viene avvolta in una fine carta vegetale e non nelle classiche carte plastificate per alimenti (che vengono fabbricate con derivati del petrolio). A Zen costa 6,86 euro al chilo, più cara di tanta carne in vendita altrove.
Lo chef non ci sta alla critica che pure di tanto in tanto gli viene mossa, che il cibo e i prodotti che vende sono “roba da ricchi”. Scegliere di mangiare bene vuol dire farsi del bene, ma anche fare del bene all’ambiente non avvelenandolo: «Poi c’è chi preferisce comprare un cellulare da 1500 euro», aggiunge Zen, «e che mangia in catene di franchising che propongono finto cibo di strada, i cui proprietari – anche loro finti – sono del tutto disinteressati al mestiere che svolgono. Io faccio il cuoco perché sono il primo a cui piace mangiare».
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