Il 9 maggio 1974 tre detenuti armati del carcere Don Soria prendono in ostaggio sei insegnanti, un medico, sei agenti e sei detenuti. La trattativa viene interrotta e le autorità decidono l’irruzione e la prova di forza. Moriranno in sette tra sequestratori, ostaggi e agenti
Nel febbraio 1974, durante una rivolta al carcere fiorentino delle Murate, gli agenti sparano sui detenuti, uccidendo il ventenne Giancarlo Del Padrone. Con il movimento del Sessantotto lo stato fatiscente delle carceri italiane era diventato argomento di dibattito e di lotta. La pressione politica per una riforma carceraria aumentava, ma ai proclami dello Stato non seguivano i fatti. Si preferiva usare ancora il bastone. Il 9 maggio successivo, durante una rivolta al carcere di Alessandria, va ancora peggio. Muoiono in sette tra detenuti, agenti, assistenti sociali e medici.
Sono passati cinquant’anni da quell’episodio e lo Stato italiano non ha mai voluto fare realmente i conti con la strage e con le proprie responsabilità. Non si è mai interrogato sui propri errori, per non ricommetterli. E quando succede così la storia, spesso, si ripete.
La strage
La mattina del 9 maggio 1974 tre detenuti armati del carcere Don Soria di Alessandria prendono in ostaggio sei insegnanti, un medico, sei agenti e sei detenuti. Si rifugiano nell’infermeria e avviano un negoziato con le autorità. «L’azione è stata provocata dal comportamento irresponsabile del governo che si ostina da anni a non concedere la riforma del sistema penitenziario e del codice penale», scrivono in una lettera. «Stanchi di essere presi in giro, decidiamo di prenderci ciò che ci spetta». I tre detenuti vogliono la libertà e chiedono un pulmino con cui poter fuggire.
La situazione è tesa, ma tutte le parti sono ben disposte al dialogo. Addirittura un’assistente sociale si offre in ostaggio per provare a convincere i rivoltosi a desistere, con il beneplacito del procuratore locale. Un modus operandi che esclude sin dall’inizio il ricorso alla soluzione di forza. Poi però fuori dal carcere arrivano le autorità di più alto grado: il generale dell'Arma dei carabinieri, Carlo Alberto Dalla Chiesa. E il procuratore generale di Torino, Carlo Reviglio della Veneria. La situazione precipita.
Alle 19.30 i Carabinieri danno il via all’assalto armato. Nonostante il parere contrario delle autorità locali e di chi conosce bene il carcere di Alessandria e i rivoltosi, Dalla Chiesa e Reviglio Della Venaria scelgono la via della forza. L’irruzione dura una manciata di minuti e sul pavimento resta senza vita il corpo di un ostaggio, il medico Roberto Gandolfi. La responsabilità della sua morte verrà attribuita a spari dei rivoltosi, senza mai svolgere alcun esame balistico per certificarlo. Due giorni dopo le pareti dell’infermeria erano già state imbiancate. Secondo i testimoni il proiettile che uccide Gandolfi, che si trovava di fianco alla finestra, arriva da fuori. Durante l’irruzione muore anche un altro ostaggio, l’insegnante Pier Luigi Campi.
Il primo assalto è un fallimento. Il sequestro prosegue e ricominciano le trattative, che vanno avanti fino al pomeriggio del giorno dopo, quando la situazione sembra lì lì per sbloccarsi. “Ad un certo punto eravamo tutti pronti per uscire”, racconterà uno degli ostaggi. Ma la trattativa è una messinscena. Alle 17 viene dato il via, per la seconda volta, all’uso della forza. La scena è la stessa della sera precedente: lacrimogeni, irruzione, spari all’interno e dall’esterno. L’esito è ancora peggiore. Tre ostaggi morti: l’assistente sociale Graziella Vassallo Giarola e gli agenti di custodia Sebastiano Gaeta e Gennaro Cantiello. Muoiono anche due dei tre detenuti-sequestratori, Domenico Di Bona e Cesare Concu. Quindici i feriti.
Lo Stato forte
«I tre detenuti si sentivano forti perché avevano in ostaggio dei cittadini. Mai avrebbero pensato a una risposta di questo tipo da parte dello Stato», sottolinea Alessandro Venticinque, autore della docuserie di LaV Comunicazione “Memoria dimenticata”, che ripercorre la storia della strage del 1974. «Gli ostaggi si fidavano più dei rivoltosi che di chi dirigeva l'operazione dall'esterno. Si conoscevano bene, c'era un rapporto umano, lavoravano lì dentro. La situazione era relativamente tranquilla fino all’arrivo delle autorità da fuori, che hanno estromesso le autorità locali e sono passati all’uso della forza».
La strage nel carcere di Alessandria del 1974 avviene in un momento storico non casuale. La repressione delle contestazioni studentesche del Sessantotto, la cesura tra un’Italia conservatrice e un’Italia che voleva il cambiamento in termini diritti e libertà civili, gli anni di Piombo. Tre settimane prima della strage c’era stato il primo rapimento di un magistrato da parte delle Brigate Rosse, quello di Mario Sossi. Due giorni dopo la strage si sarebbe tenuto il referendum per il divorzio. Nel mezzo, si discute di riforma carceraria per superare il codice introdotto nel 1931, durante il fascismo. Lo Stato italiano si sente sotto attacco. E non è disposto ad arretrare di un millimetro, anche a costo di sacrificare vite civili. Un discorso di immagine.
«Non si poteva ammettere che lo Stato venisse ancora una volta calpestato. Volevo dare un esempio», sottolinea a margine della strage il procuratore Reviglio della Veneria, che definisce l’operazione un successo. Dalla Chiesa viene addirittura nominato plenipotenziario del nuovo sistema carcerario. Come scrive lo storico Cesare Manganelli, «la strage rappresenta un punto di svolta nel mondo delle carceri italiane e un elemento imprescindibile nella costituzione ideale e morale dell'organizzazione dei Nuclei armati proletari (Nap)». A partire da quella strage le istanze carcerarie riformiste di Lotta Continua vengono sostituite dalla radicalizzazione e dalla lotta armata dei Nap. Preferendo lo scontro alla mediazione, lo Stato inaugura una nuova stagione di tensioni. Le carceri esplodono e la riforma penitenziaria del 1975 arriva troppo tardi.
La storia si ripete
Sono passati cinquant’anni dalla strage nel carcere di Alessandria e oggi il sistema penitenziario italiano sembra non essere mai andato avanti. Chi ha provato ad aprire uno squarcio su quanto successo a maggio 1974 è stato silenziato. Don Maurilio Guasco, l’ultimo mediatore prima dell’irruzione finale, si è visto stralciare le sue testimonianze durante il processo per la strage perché «inficiate da animosità verso le forze dell’ordine». Mezzo secolo non è bastato per chiarire i dubbi e le ombre di quella terribile storia. Tutti i protagonisti di quelle ore, tranne le più alte cariche dello Stato, sin dall’inizio sono concordi che la strage poteva essere evitata. Che le irruzioni non servissero, se non per dare una prova di forza. Un messaggio al paese.
Sono passati cinquant’anni dalla strage di Alessandria e lo Stato italiano non ha mai voluto interrogarsi sugli errori fatti. Non è un caso che la storia si ripeta. La strage di marzo 2020, i tredici morti in circostanze mai del tutto chiarite durante le rivolte negli istituti penitenziari di Modena, Rieti e Bologna, sono legati da un filo sottile ai morti di Alessandria.
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