«L’Italia è zona protetta», spiegò l’allora premier agli italiani. Oggi le promesse sulla sanità sono state tradite. Il medico di Alzano: «Inaccettabile non aver dato un senso a quell’ecatombe». Dubbi sul nuovo piano pandemico
«Siamo di fronte a una crescita dei contagi, dei ricoveri in terapia intensiva e ahimè anche dei morti. È per questo che sto per firmare un provvedimento che possiamo sintetizzare con l’espressione “Io resto a casa”. Non ci sarà più una zona rossa, né la zona 1 e la zona 2 della penisola, ci sarà un’Italia zona protetta. Saranno quindi da evitare gli spostamenti». Nel tardo pomeriggio del 9 marzo 2020, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, annunciava con queste esatte parole il primo lockdown a partire dal giorno dopo.
Il 10 marzo di cinque anni fa il medico Giuseppe Marzulli lottava tra la vita e la morte nel letto di casa sua, a Bergamo. Dalla finestra sentiva le sirene delle ambulanze che sfrecciavano per le strade deserte della città. Marzulli aveva rifiutato il ricovero, perché aveva visto l’orrore.
L’ultima immagine impressa nella sua memoria a inizio marzo - prima di crollare a terra colpito da una grave polmonite interstiziale - era quella dell’unico anestesista rimasto in servizio all’ospedale di Alzano Lombardo nel tentativo disperato di salvare un paziente in fin di vita, allestendo manualmente un erogatore di fortuna di un casco per la respirazione assistita. Marzulli, da direttore medico dell’ospedale Pesenti Fenaroli era stato costretto già a fine febbraio a mandare via ambulanze cariche di moribondi alla ricerca di un posto letto. Ma soprattutto il primo giorno di lockdown di cinque anni fa aveva capito da almeno due settimane che il viaggio verso l’abisso era appena cominciato. Bergamo e Roma non erano mai state così distanti. «I morti non sono serviti a niente», dice a Domani, carico di amarezza.
Marzulli è stato, suo malgrado, un protagonista della pandemia covid a Bergamo. Fu lui il 23 febbraio del 2020 a dare l’ordine di chiudere il pronto soccorso dell’ospedale di Alzano Lombardo, dopo le prime diagnosi positive al coronavirus di due pazienti ricoverati già da alcuni giorni. E fu sempre lui a rifiutarsi di riaprire quello stesso pronto soccorso, quando arrivò - subito dopo - l’ordine da Regione Lombardia di riaprire tutto. Indagato per epidemia colposa e omicidio colposo, insieme con altri dirigenti della sanità lombarda, ora che le ipotesi di reato contro di lui sono state archiviate ci consegna, a cinque anni di distanza, la testimonianza di un uomo segnato per sempre da una ferita che ancora sanguina. «L’ordine regionale di riapertura immediata del pronto soccorso poche ore dopo la sua chiusura fu fatta senza senso - mi dice – senza sanificazione, senza tracciamento. La vera preoccupazione era quella di non creare allarmismi tra la popolazione per evitare altre zone rosse».
All’ospedale di Alzano Lombardo il 23 febbraio 2020 c’erano solo quattro tamponi. Marzulli ne portò altri dieci da Seriate, sede della direzione generale della ASST Bergamo est. Le persone da tamponare all’ospedale “Pesenti Fenaroli” erano seicento. Non venne mai fatta una fotografia del contagio. In quei giorni nessuno parlava ancora di piano pandemico e c’era bisogno di un capro espiatorio che coprisse le inefficienze di un intero sistema che non stava funzionando. «Si cercarono da subito le responsabilità nel mio ospedale», dice Marzulli. Poi dall’alto calò il lockdown. Troppo tardi per la Val Seriana. Troppo tardi per Bergamo.
«Non c’erano piani operativi, non era stato predisposto nulla. Il piano pandemico senza disposizioni attuative non serve a niente. L’unica soluzione era fare una zona rossa subito il 23 febbraio», dice l’ex direttore medico, in pensione da quattro anni. «Chi non l’ha vissuto fa fatica a capire – mi spiega - a Milano sapevano, ma non fecero niente, a Roma non avevano idea di quello che stava succedendo. Noi qui avevamo già capito tutto».
Le ferite
Marzulli ci consegna una riflessione amara di questa storia: «Quello che trovo inaccettabile è non aver dato un senso a questa ecatombe, perché nessuno ha interesse a farlo, né la destra né la sinistra. Serve un'analisi seria, scientifica, competente di quello che è accaduto, non dal punto di vista penale, ma dal punto di vista gestionale per migliorare questo paese. La commissione parlamentare d’inchiesta non lavora in quest’ottica, è una commissione politica, che non indaga, ad esempio, sulle responsabilità delle regioni, anche per questo la verità è ancora lontana».
Il lockdown del 10 marzo 2020 venne definito da Walter Ricciardi, l’allora consulente scientifico del ministro della Salute Roberto Speranza, «una misura di cieca disperazione». La giunta leghista presieduta da Attilio Fontana non chiese mai una zona rossa per la Val Seriana, culla industriale della Lombardia, anzi, il 28 febbraio 2020, come rivelato da Domani, scrisse al governo per rimanere in zona gialla, nonostante avesse i dati di un’epidemia ormai fuori controllo. A sua volta, il governo guidato da Giuseppe Conte, il 3 marzo - di fronte alle raccomandazioni dell’Istituto superiore di sanità di chiudere i comuni di Nembro e di Alzano – decise di “rifletterci”, arrivando così all’annuncio shock del 9 marzo. Si chiuse tutto, tranne le fabbriche. A contestare quel lockdown nazionale, fu all’epoca Donato Greco, epidemiologo, ex direttore generale della prevenzione al Ministero della Salute e autore di tre piani pandemici, compreso quello “incriminato” del 2006, rimasto nel cassetto e mai aggiornato.
Il nuovo piano pandemico
«Il piano pandemico non è un libro dei sogni», riflette, «è un programma operativo, che ha bisogno di esercitazioni, di piani attuativi e dei singoli piani regionali». L’Italia nel 2020 non aveva nulla di tutto questo. Nella prima fase pandemica, proprio perché si oppose al lockdown, Greco si autoescluse dal comitato tecnico scientifico, a cui partecipò solo successivamente. «Mi sono opposto alla chiusura soprattutto delle scuole – ci spiega - perché ritenevo che bisognasse concentrarsi su popolazioni e zone ad altissimo rischio, piuttosto che bloccare il paese. Il lockdown nazionale non è utile, nelle pandemie bisogna intervenire in maniera mirata, non cieca e globale». Interventi mirati: l’abc dell’epidemiologia. E invece, l’impreparazione e l'assenza di qualsiasi programmazione hanno lasciato campo libero a misure estemporanee. Ecco perché oggi, a distanza di cinque anni, chiediamo proprio a lui un parere tecnico sul nuovo piano pandemico 2025-2029, la cui bozza è stata trasmessa dal Ministero della Salute alla Conferenza Stato-Regioni.
«Il punto debole è la tempistica della catena di comando, la mancanza di un'autorità centrale decisionale – spiega Greco - davanti al rischio pandemico non si possono fare riunioni o invocare il parlamento».
La grossa novità del nuovo piano è proprio l’esclusione dei Dpcm come strumento normativo per limitare le libertà individuali. Qualunque decisione dovrà essere vagliata dal parlamento. «I decreti ministeriali sono gli strumenti legislativi più efficaci, più immediati, si sono sempre usati in situazioni emergenziali. Nel nuovo piano pandemico non si nega la possibilità di un ordine centrale omogeneo in tutto il paese, però non si dice come. Manca l'operatività. Non solo, si lascia spazio all'autorità regionale di poter decidere in proprio, il che sarebbe catastrofico».
E proprio per il mancato aggiornamento del piano pandemico del 2006, lo scorso 20 gennaio la gip di Roma, Anna Maria Gavoni, ha disposto l’imputazione coatta per l’ex numero due dell’Oms, Ranieri Guerra (già direttore generale della prevenzione al Ministero della Salute) e altri due funzionari ministeriali.
Una svolta per il team legale dei famigliari delle vittime covid, che da cinque anni si battono per fare luce su quanto accaduto nella prima fase pandemica. Consuelo Locati guida il pool di avvocati che difende 640 famigliari, che hanno chiamato in giudizio davanti al Tribunale civile di Roma la presidenza del Consiglio, il ministero della Salute e Regione Lombardia per accertare le responsabilità dell’impreparazione dell’Italia ad affrontare la pandemia e per la mancata istituzione della zona rossa nella bergamasca. Il risarcimento del danno parentale è stato quantificato in 200 milioni di euro.
«Il mancato adeguamento del piano pandemico è il filone di indagine più importante – dichiara l’avvocata Locati - perché da questo è disceso tutto, anche quello che è accaduto nella bergamasca». Poi ribadisce: «Il lockdown del 10 marzo 2020 è la dimostrazione di questa impreparazione, non aver messo in sicurezza la bergamasca ha comportato la chiusura dell’Italia, anche delle isole dove non c’erano contagi». Locati, infine, ci consegna questa riflessione: «I bergamaschi non dimenticano, qui tutti siamo stati toccati personalmente da questa tragedia. La lezione? Che fino a che non si investiranno risorse nella sanità pubblica, nella medicina territoriale e nella prevenzione non cambierà nulla e non saremo mai all’altezza di nessuna emergenza sanitaria».
© Riproduzione riservata