I boicottaggi alimentari hanno assunto forme tanto sfaccettate quanto quelle dei sistemi di produzione che si sono proposti di ostacolare, determinando, in alcuni casi, anche cambiamenti di enorme portata. L’ultimo caso è stato quello di McDonald’s
Questo articolo è tratto dal nostro mensile Cibo, disponibile sulla app di Domani e in edicola
Il profilo Instagram di McDonald’s Israel ha 61,5 mila follower. Com’è logico, scorrendo tra i contenuti della pagina ci si imbatte in un muro di grafiche promozionali e reel di attori che si confrontano entusiasti sull’ultimo “imperdibile” panino. Ma scendendo un po’, qualche “scroll” più in giù, il velo asettico e rassicurante del marketing sembra sfilarsi per un attimo (il tempo di cinque o sei post) mentre la realtà irrompe nelle strategie di comunicazione del grande marchio: gli attori sorridenti lasciano il posto a infermieri in divisa con in braccio ceste stracolme di menù takeaway e al posto delle grafiche promozionali compaiono un paio di comunicati aziendali con bandiera israeliana in calce.
È la seconda settimana di ottobre, Hamas ha colpito e Benjamin Netanyahu ha appena annunciato che Israele è in guerra. In tanti nel mondo cercano di capire che tipo di conflitto sarà, che impatto avrà sul futuro e quale posizione prendere. Così, anche il fast food più famoso del mondo fa la sua scelta di campo e comunica a seguaci e investitori che distribuirà decine di migliaia di pasti gratuiti a soldati e sanitari israeliani coinvolti sul campo di battaglia. Sui social spopolano immagini di hamburger e patatine fritte ai piedi di carri armati dell’Idf, le Forze di difesa israeliane. E poche ore dopo, se è vero che a ogni azione corrisponde una reazione uguale e contraria, il termine “boicottaggio” finisce nei trending topic degli stessi social, cioè in cima alla lista degli argomenti “di tendenza”.
Il messaggio - veicolato dal movimento a guida palestinese Bds (Boicottaggio, disinvestimento e sanzioni) - si muove da vari paesi limitrofi a maggioranza musulmana e rapidamente buca “la bolla” anche in una parte dell’occidente, dove gruppi organizzati raccolgono e rilanciano l’obiettivo di danneggiare economicamente una precisa lista di marchi che si sono in qualche modo esposti in sostegno a Israele. Passano sei mesi e dal quartier generale di McDonald’s, a Chicago, l’amministratore delegato Chris Kempczinski parla della guerra in corso e del suo «impatto commerciale significativo» per la divisione che include medio oriente, India e Cina.
Le vendite dell’ultimo trimestre 2023 sono cresciute soltanto dello 0,7 per cento contro aspettative di mercato del 5,5 per cento e nella sola giornata del 13 marzo il gruppo ha perso quasi 7 miliardi di dollari in termini di valore azionario. Un “intoppo” che richiede un pronto intervento, per evitare danni di immagine ancora maggiori: il 4 aprile la casa madre annuncia che riacquisterà tutti i 225 punti vendita locali amministrati dal franchising israeliano Alonyal, colpevole di essersi pronunciato politicamente e mediaticamente senza l’approvazione della sede centrale. Perché questa contromisura? «Perché come qualunque multinazionale, McDonald’s è estremamente esposta in termini finanziari e quindi altrettanto sensibile alla propria reputazione», spiega Filippo Cicoli, dottorando in Global studies all’Università “Carlo Bo” di Urbino.
«Volendo semplificare: non vive solo grazie ai panini che vende, ma anche e soprattutto alla credibilità delle sue proiezioni future, che sono la garanzia per accedere alle linee di credito concesse dalle banche». Ora, la mossa dei vertici McDonald’s è sufficiente per affermare che le pratiche di boicottaggio attuate in questi mesi possano piegare un colosso globale presente con 40mila ristoranti in quasi ogni paese del mondo? Realisticamente, no. Tuttavia, che costituiscano un elemento di disturbo abbastanza vibrante da costringere alla revisione di alcune politiche e assetti aziendali, questo sì. «Il punto centrale da comprendere - dice Cicoli - è che oggi la partita di un boicottaggio si gioca sempre più nel campo dei sentimenti e dello spirito, sempre meno in quello delle piazze e dei corpi fisici».
Agrumi e latte in polvere
Nel corso della storia, infatti, i boicottaggi alimentari hanno assunto forme tanto sfaccettate quanto quelle dei sistemi di produzione che si sono proposti di ostacolare, determinando, in alcuni casi, anche cambiamenti di enorme portata. Viaggiando un po’ indietro nel tempo, il Boston tea party, celebre boicottaggio del tè inglese da parte dei coloni americani, fu uno degli eventi chiave che portarono alla rivoluzione americana e, il 4 luglio 1776, all'indipendenza degli Stati Uniti dall'Impero britannico. O ancora, il boicottaggio di un’ampia gamma di prodotti agricoli provenienti dal Sudafrica, dagli agrumi, al vino, fu una componente essenziale della campagna di proteste globali che portarono al disfacimento del regime di apartheid e, nel 1994, alle prime elezioni non razziali nella storia del paese.
Certo, a precedenti di tali dimensioni si affiancano anche campagne foriere di conseguenze più modeste, ma comunque determinanti in termini di conquiste sociali e avanzamento dei diritti. Nel 1970, dopo cinque anni di boicottaggio e scioperi, i maggiori produttori di uva della California accettano di firmare contratti sindacali con gli United farm workers (Ufw), garantendo aumenti salariali, migliori condizioni di lavoro e il riconoscimento della sigla sindacale. E quelli sono gli stessi anni in cui, sempre negli Usa, scoppia il caso Nestlé, accusata di promuovere l’uso di latte in polvere per i neonati nei paesi in via di sviluppo e di contribuire alla malnutrizione e alle morti infantili. Il gruppo svizzero diviene immediatamente bersaglio di uno strenuo boicottaggio - tuttora in evoluzione - da parte del gruppo Baby milk action, che porterà poi l’azienda ad attuare una serie di iniziative per adeguare la sostenibilità delle sue pratiche commerciali a standard riconosciuti a livello internazionale.
Da un lato braccianti, quasi sempre immigrati, impegnati in uno scontro frontale con i proprietari dei terreni in cui lavorano. Dall’altro una ong, da mezzo secolo in prima linea per portare alla luce le incongruenze etiche di una multinazionale e colpirne la reputazione. È proprio il confronto tra questi due casi appena citati che mostra, come si diceva, il passaggio a un terreno di contestazione via via più immateriale. Con i mezzi di comunicazione di massa prima e l’apertura alla globalizzazione poi, la questione si sposta sia in termini organizzativi che di obiettivi da raggiungere e i gruppi di protesta si coordinano sempre meno nelle piazze o nelle campagne, sempre più tramite mail, poi tramite social. Oggi, spiega Francesca Forno, docente di sociologia all’università di Trento, in una società così fortemente centrata su un’economia del consumo, «Il boicottaggio attacca laddove c’è un potere economico, che ormai da tempo è percepito come molto più influente sulla vita delle persone rispetto a quello politico. E mentre esercita pressione funge anche da lente pedagogica sensibilizzando la cittadinanza sul ruolo attivo che può esercitare un consumatore».
Il caso McDonald’s Israel, insomma, come vari altri scaturiti dal contesto della guerra a Gaza, è un esempio di come la platea di chi si interroga sui retroscena di ciò che mangia o compra al supermercato possa improvvisamente e rapidamente infoltirsi. «Siamo in un’epoca in cui - lo vediamo anche dall’affluenza al voto nei paesi democratici occidentali - il ruolo del cittadino in quanto tale è svilito», conclude Forno. «Aumenta sempre più, di contro, il peso che il cittadino esercita nel suo ruolo di consumatore». Con conseguenze ancora tutte da valutare.
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