«È stata mia l’idea, era l’unica soluzione per evitare di essere scoperti. Così abbiamo camuffato quell’operazione da gita turistica, altrimenti nel feudo della camorra dei Gionta non saremmo mai entrati». Le parole sono del killer pentito, Salvatore Scafuto.

Il suo racconto ci riporta al 1984 e alla strage dimenticata. A Domani racconta l’ideazione e i particolari inediti: una carneficina al centro delle cronache di Giancarlo Siani, il precario cronista del Mattino ucciso dai clan pochi mesi dopo quella mattanza e che per primo ne aveva intuito il significato.

Sono trascorsi quarant’anni da quella scena di guerra nel cuore dell’Italia. A Torre Annunziata faceva un caldo torrido, e neanche il mare poco distante dava refrigerio.

A ridosso dell’ora di pranzo c’era ancora trambusto nel bar di riferimento del boss Valentino Gionta. Il capoclan era lì a parlare di calcio e affari, gli affiliati si preparavano per i saluti, a casa c’era il pranzo domenicale da onorare. In un lampo quella cartolina agostana si è trasformata in un inferno: un diluvio di proiettili si abbatte sui camorristi in mezzo a tavolini e sedie che saltano in aria. Sette fedelissimi del boss sterminati, tra le vittime anche Francesco Fabbrizzi, lavoratore perbene e padre di famiglia, che passava nei pressi del bar mentre era in corso la strage. In tutto otto morti, sette feriti.

Il capoclan si è salvato scappando nei vicoli del popoloso quartiere che lo aveva visto diventare capo assoluto, tra i palazzi sfregiati dal tempo e dal terremoto che, quattro anni prima, aveva sconvolto la Campania e cambiato tutto per sempre. L’obiettivo era lui visto che aveva allargato il suo giro d’affari, stretto un’alleanza con il clan Nuvoletta di Marano legato alla mafia corleonese di Totò Riina. Un avvicinamento che aveva scatenato la vendetta della camorra egemone in quella stagione, quella di Carmine Alfieri e Angelo Moccia.

«Mi venne l’idea di camuffarci da turisti in gita, Gionta doveva pagarla», racconta oggi Salvatore Scafuto, un boss che ha fatto parte del gotha della camorra campana, figura di vertice di uno dei clan più ignorati e potenti, i Moccia. Ha estorto e ucciso. Scafuto ora è un collaboratore di giustizia, anzi pentito. Per lui c’è una differenza sostanziale tra le due parole, che spiega tornando agli inizi.

«Io ho gestito il clan Moccia per anni, allora i capi erano in cella. Io e Angelo Moccia quando dovevamo condannare qualcuno a morte ci capivamo con gli occhi. Ho conosciuto i boss Alfieri, Bardellino, ho fatto il camorrista per una vita», ricorda Scafuto. È cresciuto con Anna Mazza, la vedova nera di camorra, madre dei fratelli Moccia, padroni del clan e signori del crimine, capaci di infiltrare ogni settore economico, da quello petrolifero a quello degli appalti ferroviari.

«Una volta la signora Moccia mi disse che io dovevo essere il primo dei suoi figli, Luigi lo chiamavano “lo straniero” perché era l’unico nato a Napoli. Mi definisco uno stallone, anche se tutti mi chiamano “o’ Animale” perché una volta mostrai la ferocia per uno che aveva provato a uccidermi. Ma oggi sono pentito, pentito, non collaboratore», dice.

Perché? «Perché mi ricordo tutto fin dal primo omicidio, io ero il killer del clan Moccia, avevo il mio gruppo di fuoco. Mi occupavo di gioco, bische clandestine, estorsioni, ma non la droga, quella fa schifo. Dicevano che il potere passa dalla canna del fucile, ma ho capito presto che passa dai soldi, la corruzione muove tutto, con la violenza arrivi fino a un certo punto, con il denaro ovunque. Ne era convinto Angelo Moccia, detto Enzuccio. Aveva ragione».

L’incontro con Scafuto avviene all’interno del carcere dove è recluso, ha una memoria pregna dei suoi anni neri, quando era componente di vertice della camorra: sangue e potere. «La tragica guerra di camorra tra cutoliani e Nuova famiglia nasce perché io mi misi di traverso all’ingresso degli uomini di Raffaele Cutolo nel nostro territorio. Perché mi sono pentito? Perché ho tolto figli a madri, padri a figlie, fratelli a sorelle. Sono stato un uomo indegno, ho vissuto una vita balorda, ho dimenticato di essere un figlio di Dio. Io prima di offrirmi allo stato ho lasciato andare via chi ero prima. Quella vita era immonda».

C’è una pagina nel suo passato più nera delle altre? Scafuto non ne vorrebbe parlare, ma il ricordo è lì presente, la sua ossessione. «Angelo Moccia mi chiese di fare un omicidio, dovevo uccidere un cutoliano, un uomo che non conoscevo. Era in auto. Sparai, morì morto all’istante. Mi sono avvicinato allo sportello e ho visto che c’era un bambino dentro, questa cosa me la porto appresso, io non lo avevo visto, altrimenti non avrei sparato. Penso che se uno dovesse uccidermi non deve ammazzarmi mai davanti ai miei nipoti. Perché l’odio si porta dietro odio», dice l’ex killer.

Scafuto inizia a collaborare nel 2015 quando era ancora libero, si è autoaccusato di delitti anche di sangue per i quali non era neanche indagato. È stato destinatario di una campagna per renderlo inoffensivo e poco credibile, ma è ritenuto pienamente attendibile e ampiamente riscontrato dalla procura antimafia.

In un pronunciamento, accogliendo la tesi difensiva, il tribunale ha messo in dubbio la sua attendibilità, una visione contestata dalla procura che ha elencato gli altri pronunciamenti dei giudici, almeno cinque, nei quali Scafuto è stato ritenuto pienamente attendibile. Gli investigatori hanno riscontrato le dichiarazioni di Scafuto e scoperto un piano di intimidazione ordito ai suoi danni.

I turisti sparano

«Io ero al vertice della piramide, visto che i fratelli Moccia erano tutti detenuti, io di fatto ero capo. Di tutta la famiglia, solo Angelo Moccia era latitante. Io sono stato il senatore del clan Moccia», dice il pentito, che a Domani ha già raccontato in passato i rapporti con la politica. Ora svela i particolari di quella strage dimenticata.

«Io ho partecipato attivamente, ho organizzato con i vertici della Nuova famiglia la strage di Sant’Alessandro. Io ho stabilito che tipo di armi utilizzare, mitra calibro 45, avevano meno proiettili, ma erano più efficaci: devastanti. Organizzammo quella strage perché il clan Gionta era affiliato ai D’Alessandro di Castellammare di Stabia e, nei fatti, faceva riferimento ai Nuvoletta, legati ai corleonesi, alla mafia siciliana. Era la nostra palla al piede per l’espansione dei nostri interessi, a partire dal traffico di sigarette. Torre Annunziata era diventata una roccaforte». E quando si creano fortini autonomi scatta la resa dei conti. Scafuto ricorda ogni dettaglio di come pianificarono la carneficina a colpi di mitra.

«L’idea del bus di pellegrini è venuta a me. Andare con le auto avrebbe comportato due rischi: il conflitto a fuoco e la possibilità di essere fermati da un posto di blocco, visto che sarebbe stata una colonna di macchine. Così ho proposto il bus turistico, io ero nell’auto di supporto per soccorrere i feriti. Bisognava stare tutti nascosti nei sediolini come se il mezzo fosse vuoto poi aprire il portellone, scendere e iniziare a sparare per coglierli di sorpresa. Così avvenne».

L’unico a salvarsi è stato Valentino Gionta, l’obiettivo dell’agguato. Tra i killer c’era anche Angelo Moccia, detto Enzuccio. Strage di cui ampiamente scrive da precario sul Mattino Giancarlo Siani, il giornalista poi ucciso dalla camorra, nel 1985. Alcuni anni più tardi Angelo Moccia ha traghettato il clan, che aveva vinto la guerra di camorra contro i cutoliani, verso la cosiddetta dissociazione, una strategia difensiva che ha protetto il gruppo dalle parole dei pentiti, dalla vendetta dei nemici, ma soprattutto ha consentito al gruppo di inabissarsi.

Così, mentre Scafuto si pentiva, Moccia nel 2015 usciva dal carcere e due anni dopo ha accompagnato la figlia all’altare. Ora è di nuovo dentro perché non ha mai smesso di essere boss.

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