È il frutto dell'estate che rinfresca e nutre senza eccedere in zuccheri o calorie. Chiamato in ogni regione in un modo diverso, ha dato da lavorare all'Accademia della Crusca che alla fine ha decretato: “cocomero” è il nome più italiano. Icona popolare semplice e immediata, stampata su magliette e tovaglie, il cocomero comunica l'estate e il rimedio al caldo. I grandissimi artisti che lo hanno dipinto, da Cézanne a Botero, ci mostrano anche come sia cambiato attraverso gli anni
Il cocomero è l'estate. È l'alimento che richiama la bella stagione più di ogni altro, il frutto più dissetante, dolce e rinfrescante. È fatto quasi totalmente di acqua, circa il 96 per cento. Inaspettatamente per qualcuno contiene pochi zuccheri (3,7 grammi per etto contro i 10 della pesca e della susina e i 9 dell'albicocca), ha solo 16 calorie per 100 grammi e fornisce preziosissime sostanze come vitamine A, B e C, potassio, fosforo e magnesio. Ed è anche buono.
Il cocomero ha molti nomi, varianti per lo più geografiche che hanno dato molto lavoro all'Accademia della Crusca, che ha concluso che nella lingua italiana “cocomero”, termine di origine tosco-laziale, è da considerarsi la forma principale. Il nome “anguria”, invece, nasce in Lombardia (ma poi viene utilizzato anche al sud), mentre “melone da pane” si attesta a Napoli e “zi' parrucu” in Calabria, perché il frutto è rubicondo come il viso del parroco. Aggiungiamo “sindria” in sardo e catalano, “citrone” in Abruzzo, “pateca” in Liguria e poi un nome declinato in varie lingue che attesta il suo essere il frutto dissetante per eccellenza: “muluni d'acqua” (siciliano e di nuovo napoletano), “melone all'acqua” (Taranto), “watermelon” (inglese), “melon d'eau” (francese) e altri ancora (noi in questo articolo useremo “cocomero” allineandoci con la Crusca). Attenzione però se andate in Grecia, dove αγγούρι (leggi anguri) significa cetriolo, altra cucurbitacea rinfrescante e dissetante ma dal sapore decisamente meno dolce.
Frutto sacro
Il cocomero ha fatto il viaggio inverso rispetto al pomodoro. Partito dall'Egitto (circa 4.000 anni fa), arrivò in India, Cina e Medio Oriente e nel 1100 i Mori lo introdussero in Spagna. Da qui si diffuse in tutta Europa e poi arrivò nelle Americhe grazie ai colonizzatori spagnoli del Cinquecento e Seicento. Direste mai che il festoso cocomero, oggi affettato in serate estive e simbolo di spensieratezza, chiasso e allegria, fosse un tempo sacro? Per gli Egizi era parte del culto del dio Set e purificava gli umani, scacciando via i loro demoni. Dopo migliaia di anni siamo ancora lì: oggi estetiste e siti di beauty consigliano di spalmare il cocomero sui nostri visi, corpi e capelli per purificare i tessuti e togliere le impurità. I popoli del passato avevano probabilmente capito le proprietà purificanti del cocomero e le avevano sacralizzate; noi le abbiamo laicizzate, utilizzandole contro i demoni e le impurità della nostra civiltà: le rughe, gli inestetismi, i capelli opachi.
Per mangiarlo, oggi il cocomero lo compriamo intero, a volte enorme e pesante, da qualche anno anche “baby”, più comodo da portare fino alla macchina o da mettere in frigo. Qualche anno fa in Giappone qualcuno provò anche a creare il cocomero cubico per trasportarlo meglio e non farlo rotolare sugli scaffali, ma non fu un successo. La trasformazione culturale portava troppo in là quello che la natura ci aveva offerto e il consumatore lo rifiutò. E così oggi il cocomero cubico è solo un pezzo di design nelle case della middle-class giapponese più benestante (un pezzo costa sulle 150 euro, ma si tratta di arte effimera, dopo pochi giorni si deteriora e bisogna buttarlo e comprarne un altro).
Una mediazione accettata è stata invece vendere il frutto dell'estate per eccellenza in tranci già tagliati nel packaging di cellophane dei supermercati; scelta pratica per i “modernisti”, snaturante per i conservazionisti, che amano ancora, coltellaccio in mano, affettarlo a tavola davanti a parenti e amici con un misto di orgoglio ed esibizionismo. Per semplicità, troviamo il cocomero anche già tagliato a cubetti nei reparti del cibo pronto dei supermercati, nelle gelaterie o nei risto-bar e in altri locali che ne propongono un consumo facile, senza il fastidio di sbucciarlo.
Icona dell’estate
Ma il cocomero non è solo sapore. È anche un'icona, un referente visivo dell'estate. Quel rosso inconfondibile puntellato dal nero dei semini è un accoppiamento di colori straordinario. Aggiungete la forma a mezzaluna e la buccia verde, e il brand è completo. A livello di comunicazione popolare, il cocomero rinfresca tovaglie da tavola, grembiuli da cuoco, T-shirt, graffiti e molto altro. Basta una fetta da qualche parte per abbassare di qualche grado la temperatura percepita da chi guarda quell'immagine. Come nel videoclip di L'allegria, in cui Gianni Morandi, Jovanotti e Valentino Rossi ne affettano uno durante una tavolata in campagna insieme ad amici ballerini e motociclisti: la vita sembra già più fresca e gli amici più sorridenti. Perché il cocomero mette allegria e porta altra gente, visto che è troppo grande per mangiarlo da soli. È quindi il frutto della condivisione per eccellenza.
A livello di comunicazione artistica, Cézanne, Segantini, Matisse, Boccioni, Balla, Dalì, Kahlo, Rivera, De Chirico, Guttuso, Botero e molti altri, ognuno a suo modo, hanno reso omaggio a questo frutto e alla freschezza che porta con sé certo per la sua capacità dissetante, ma anche per la sua straordinaria purezza visiva e cromatica.
Potremmo dire che solo la natura poteva creare un'icona così perfetta, ma sbaglieremmo. Perché anche il cocomero, come tutto il cibo che conosciamo, si è trasformato dialogando con la società che lo degusta come frutto e lo fruisce come icona. Giovanni Stanchi, un pittore del Seicento, conferma involontariamente questa teoria. I suoi cocomeri sono i cocomeri del Seicento. Brutti, diremmo oggi poco invitanti visivamente: meno rossi, con la parte bianca predominante (e quindi possiamo supporre meno dolci) e con tantissimi semi.
Il professor Jim Nienhuis, che insegna Orticultura all'università del Wisconsin, utilizza nelle sue lezioni i cocomeri di Giovanni Stanchi per spiegare agli studenti come il cibo che definiamo “naturale” in verità sia il risultato dell'interazione tra natura e cultura. Il cocomero è stato sottoposto a continui incroci e innesti nel corso degli anni. Il licopene è diventato man mano sempre più abbondante e il frutto si è quindi fatto sempre più rosso. E gradualmente si sono selezionate specie con sempre meno semi, anche se chi ama il cocomero pensa che quei semi siano sempre troppi, e purtroppo nascosti benissimo, tanto che è rarissimo eliminarli tutti prima di un boccone.
È molto interessante che un altro pittore del periodo, Abraham Brueghel, fiammingo trasferitosi in Italia, dipinse nello stesso periodo di Stanchi, forse anche prima, cocomeri rossi quasi come i nostri (ma quanti semi!). Gli esperti stanno ancora discutendo su cosa significhi tutto questo, ipotizzando anche che Brueghel semplicemente abbellì i suoi cocomeri per motivi prettamente estetici, prevedendo il futuro. Raggiunto da Domani, il professor Nienhuis avanza una sua teoria: «E se ci fosse stata già all'epoca una differenziazione geografica del cocomero? – dice – In alcune zone, dove Brueghel traeva ispirazione, magari questi incroci erano già a uno stato più avanzato; mentre i cocomeri che vedeva Stanchi erano a uno stadio meno sviluppato».
Qualunque sia la risposta, il cocomero non manca mai un'estate: sempre più rosso, con sempre meno semi, orgogliosamente tondeggiante e rigorosamente da condividere con amici e parenti. Per due o tre mesi l'anno, con il sapore del suo succo e l'iconicità delle sue forme, il frutto dell'estate è lì a ricordarci che il grande caldo può essere sconfitto.
© Riproduzione riservata