Le terre agricole sono come testi da scoprire. Portano dentro segni che non si perdono mai, ma possono anche vedersene aggiungere di nuovi.

E per riuscire a estrarre queste risorse immerse è necessario essere portatori di uno sguardo esterno, che colga il tratti di specialità in tutto ciò che lo sguardo locale dà per scontato. Succede così nelle campagne italiane, dove l’innovazione produttiva o il restauro di alcune tradizioni possono essere affidati all’iniziativa di neo-agricoltori provenienti da lontano. Anche da molto lontano. Dal Giappone, per esempio.

Come i due giovani che in due diversi punti dell’Italia centrale tentano la sfida imprenditoriale nel campo vitivinicolo, destreggiandosi senza paura con l’azzardo della contaminazione con un sistema culturale nettamente distante e una struttura del mercato e della proprietà delle terre che offre scarni margini di manovra.

Arrivare da lontano

Uno si chiama Tatsu Osaki e ha scelto una zona del Mugello in fase di spopolamento per avviare un progetto visionario: l’importazione in Toscana di un vitigno giapponese, che a sua volta farebbe un tragitto di ritorno dato che potrebbe essere stato importato in estremo oriente un migliaio di anni fa.

L’altro, Shun Minowa, si è insediato nelle colline del piacentino per dedicarsi a una doppia sfida: la vinificazione con metodo naturale e il tentativo di conferire al prodotto locale un valore che i mercati italiani stentano a riconoscere. Entrambi portano avanti visioni e metodi che sono un mix fra innovazione e recupero delle tradizioni. E mostrano una sorprendente capacità di leggere sociologicamente le culture agrarie e produttive locali, con una voglia di mettersi a disposizione delle comunità e del loro rilancio che non sempre è riscontrabile nella popolazione autoctona.

Classe 1988, un sogno di diventare pilota di aviazione civile riposto nel cassetto per motivi di salute, Osaki proviene da una famiglia dalle idee politiche molto conservatrici. Racconta che il nonno assistette da lontano al bombardamento di Hiroshima.

Vide gonfiarsi nel cielo il fungo atomico e da quel momento non sentì mai placare un’ansia revanscista destinata a rimanere insoddisfatta.

Certo, né il nonno né i genitori avrebbero immaginato che Tatsu coltivasse un carattere così esterofilo, con quella grande passione per il cibo e i vini italiani. Questa passione lo porta nel nostro paese, dove si inserisce bene e in occasione di un’edizione di Vinitaly a Verona fa la conoscenza dei proprietari dell’azienda agricola di Lavacchio, con sede a Pontassieve (Firenze). Inizia a lavorare lì come addetto alla cantina e da quel momento prende a accarezzare il sogno di portare da quelle parti un vitigno giapponese: il Koshu, che ha il proprio ambiente di sviluppo sul monte Fuji.

Ritorno a casa

«In realtà si tratterebbe di un ritorno a casa», dice Osaki, «perché il Koshu ha origine europea e è stato importato in Giappone all’incirca nell’anno Mille attraverso la Via della seta. Nel contesto fisico e climatico giusto può attecchire anche in Italia». Quel contesto è stato individuato a Firenzuola, il comune mugellano dal territorio più esteso ma soggetto a un vasto spopolamento. Qui Osaki ha comprato un appezzamento di terreno collinare. E in attesa che vengano compiuti tutti i passaggi burocratici necessari a importare il vitigno pianifica la composizione della vigna.

Parla di una sistemazione “per alberelli” e non per filari, di modo che le piante possano meglio resistere ai venti. «Le condizioni per vederlo attecchire ci sono. La terra ha una natura calcarea che non trattiene l’acqua e questo può essere un vantaggio».

Gli sta a cuore anche dare un segnale di controtendenza rispetto allo spopolamento in atto a Firenzuola: «La gente del posto mi racconta di quando ogni famiglia aveva la stalla con quattro o cinque mucche. Adesso i giovani fuggono verso la città e la campagna si spopola. Mi piacerebbe portare una nuova luce da queste parti».

La gentilezza verso la terra L’estrazione familiare di Minowa è totalmente diversa rispetto a quella di Tatsu. Classe 1984, in giro per il mondo dal 2012, Minowa ha genitori che lavorano nella cooperazione allo sviluppo e nella tutela della biodiversità. Lui ha sviluppato una passione per il settore della vinificazione che l’ha portato dapprima in Spagna, poi in Cile nella regione di Ňuble.

E proprio nel periodo in cui lavora in Cile s’imbatte casualmente nel vino piacentino. Ne rimane affascinato al punto tale da prendere la decisione di cambiare rotta geografica e di vita. Nel 2016 si trasferisce in Italia e avvia una conoscenza in profondità del settore, ma anche delle specificità vitivinicole del piacentino. Sposa una donna parmense, che di professione fa l’avvocato, e dal 2019 prende in affitto vigne da rimettere a reddito.

Al momento ne gestisce sette, tutte nella zona intorno a Travo, piccolo comune del piacentino in piena Val Trebbia. E in attesa di poter acquistare un terreno applica la propria filosofia del rapporto con la terra agricola. Una filosofia della gentilezza che consiste nel contenere quanto più possibile l’impronta dell’antropizzazione.

Una qualità sottovalutata

«Nella lavorazione della terra preferisco non zappare perché si tratta di un intervento che sconvolge un equilibrio, specie in un terreno dalla natura franosa come questo. Inoltre, penso che l’eliminazione dell’erba dalla terra non sia un beneficio ma anzi rischia di essere un danno. Eliminare l’erba significa sottrarle uno strato organico e ciò elimina il necessario filtro alla penetrazione dell’acqua piovana. Fra l’altro, questa è una zona in cui l’erba cresce poco, non arriva a formare mai uno strato particolarmente fitto. Quando ho cominciato a lavorare in questa zona, nel 2019, le vigne erano “nude”, completamente prive di erba. Preferisco lasciarla crescere».

Questa passione per la terra si trasmette al vino che le sue vigne producono. Un vino della cui qualità Minowa, da produttore che è riuscito a ritagliarsi una nicchia di mercato, si fa paladino. Ma che a suo giudizio stenta a sfondare proprio sul mercato interno perché non gli è stato ancora attribuito il giusto riconoscimento: «Più facile trovare il vino piacentino in un bistrot parigino che sugli scaffali della grande distribuzione italiana. Il motivo? Non gli viene riconosciuto il prestigio che merita. All’estero questo vino è molto apprezzato. Lo noto guardando alla destinazione del vino che produco, che per metà va all’estero: Usa, Gran Bretagna, Francia, Germania, Australia, Cina, Taiwan» dice. «Ma per stare sul mercato italiano è necessario tenere il prezzo a un livello talmente basso da non essere conveniente. Se si prova a alzarlo, il mercato risponde in modo negativo. Purtroppo la qualità del prodotto non è abbastanza riconosciuta, presso il pubblico italiano piacentino non è stato ancora classificato come un vino per il quale sia lecito spendere qualcosa di più. Questa sarò la vera battaglia da vincere. Anche perché questa è una terra con una forte presenza di vinificazione biologica».

Non è frequente che un soggetto giunto dall’estero prenda tanto a cuore le specificità vitivinicole di questo frammento d’Italia.

Talmente a cuore da spingerlo a recuperare tradizioni perdute: «Mi piace interrogare i vecchi contadini del posto per sapere di colture e tecniche quasi in disuso. E loro sono contenti di parlarmene. Sanno che quelle conoscenze rischiano di essere disperse, per questo hanno piacere di sapere che qualcuno è interessato a mantenerle vive».

Un esperimento di neo-tradizione curato da un aspirante imprenditore venuto da lontano. Sono anche queste le energie nuove di cui necessita il mondo agrario italiano.


La pubblicazione è stata realizzata da ricercatore con contratto di ricerca cofinanziato dall’Unione europea - PON Ricerca e Innovazione 2014-2020 ai sensi dell’art. 24, comma 3, lett. a), della Legge 30 dicembre 2010, n. 240 e s.m.i. e del D.M. 10 agosto 2021 n. 1062.

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