- Le vittorie mondiali dell’epoca fascista arrivavano sotto il segno della nazionalizzazione delle masse e dei movimenti sportivi, quella di Euro 1968 segnava un mutamento sociale cui il calcio partecipò fattivamente.
- La nazionale di Bearzot che vinse Spagna ‘82 era simbolo di un benessere non ancora percepito, la nazionale di Lippi del 2006 si portava addosso il segno di una frattura che sarebbe rimasta negli anni.
- La squadra pilotata verso il trionfo da Roberto Mancini si presenta come un nuovo simbolo di unità. Ma rimane un’entità aliena rispetto al movimento calcistico italiano, che adesso dovrebbe dimostrare di esserne all’altezza.
Le vittorie della nazionale azzurra di calcio segnano passaggi storici. E soltanto retrospettivamente possiamo cogliere dove e quanto a fondo incidano. Succederà anche nel caso dell'affermazione della squadra guidata da Roberto Mancini a Euro 2020+1, l'edizione più anomala (e speriamo irripetibile) della rassegna calcistica continentale.
Possiamo soltanto ipotizzare quali saranno le conseguenze che il trionfo di Wembley genererà per il calcio italiano. Oltre che per il paese nel suo complesso, giusto per non dimenticare che in Italia attraverso il pallone si continua a scrivere l'autobiografia della nazione. Ma prima di azzardare una previsione è bene guardare al passato e valutare come gli altri trionfi internazionali della squadra azzurra abbiano determinato dei cambiamenti.
La nazionalizzazione
I due mondiali vinti in epoca fascista vanno trattati come casi a parte, perché troppo lontani nel tempo e troppo condizionati dalle circostanze storico-sociali. Arrivano in una fase storica che viaggia verso la seconda guerra mondiale.
Il secondo, quello di Francia nel 1938, giunge addirittura un anno prima che esploda il conflitto. Dunque bisogna piuttosto guardare a cosa abbia generato quei successi mondiali, non a cosa quei mondiali abbiano generato. E allora spicca il fatto che quei mondiali cadano nel pieno di un percorso di nazionalizzazione delle masse fatto attraverso un uso politico dello sport, che vede un forte intervento centralizzatore dello stato tanto in termini di impiantistica sportiva quanto in termini di strutturazione dei campionati secondo la formula del girone unico nazionale.
La squadra di Vittorio Pozzo si trova a essere l'avanguardia di un movimento sportivo non amato dal duce, che ritiene il calcio un gioco di matrice troppo anglosassone, ma che Mussolini infine sfrutta per motivi propagandistici. L’eredità dello sport nazionalizzato verrà trasferita nell’Italia della ricostruzione.
Il Sessantotto sottovalutato
Bisogna dunque spingersi abbondantemente oltre, nel dopoguerra, per trovare un altro grande successo della nazionale azzurra. Si tratta degli Europei del 1968, quella che fino alla mezzanotte di domenica scorsa era l'unica edizione portata in bacheca dall'Italia.
E tornando indietro di 53 anni si scopre una chiara analogia: allora come adesso la vittoria continentale segna per il calcio italiano il riscatto da un'umiliazione legata alla precedente edizione dei mondiali.
Vincendo a Wembley gli azzurri di Roberto Mancini restituiscono lustro al calcio nazionale segnato dalla mancata qualificazione ai mondiali di Russia 2018, giunta 60 anni dopo l'ultima assenza (Svezia 1958). Dal canto suo, la nazionale di Ferruccio Valcareggi vincitrice degli Europei 1968 restaura un minimo d'onore per il calcio nazionale dopo la sconcertante eliminazione dai mondiali di Inghilterra 1966, avvenuta per mano della Corea del Nord con gol del “dentista” Pak Doo Ik.
La fase finale di quell'Europeo 1968 si gioca in Italia ma la sua formula è molto diversa rispetto a quella di oggi. All'epoca la manifestazione comprende soltanto le semifinali e le due finali. E così rimarrà fino alla successiva occasione in cui la fase finale di un Europeo sbarca in Italia (anno 1980), quando per la prima volta viene adottata la formula dei gironi all'italiana. Tornando a quel 1968, si tratta di una vittoria avventurosa. La semifinale contro l'Urss è decisa dal lancio della monetina. E la finale contro la Jugoslavia deve essere ripetuta perché il primo tentativo si chiude il parità (1-1) e perché l'atto conclusivo della manifestazione non prevede l'esito a sorte (quello ai rigori è ancora di là da venire).
La vittoria 2-0 nel replay consegna il primo trofeo dell'era democratica alla Figc e segna una ripresa del calcio nazionale, che andrà a sfiorare la vittoria mondiale due anni dopo in Messico. Ma si manca troppo spesso di rilevare (una fra le rare eccezioni è un bel libro di Francesco Caremani, “Il calcio sopra le barricate. L'altro Sessantotto”) la collocazione storica di quel trionfo: l'anno 1968, con tutto ciò che significa in termini di mutamento sociale e culturale. Si può dire che anche il calcio faccia il suo Sessantotto perché quello è l'anno in cui il mestiere del calciatore comincia a essere sindacalizzato. Succede in Italia in un giorno di luglio, con la fondazione dell'Associazione Italiana Calciatori a Bassano del Grappa, per iniziativa di Sergio Campana.
Ma succede pure in Francia, dove si anima un Maggio anche nel mondo del pallone. Il 22 di quel mese i calciatori occupano i locali della Federation français de football (Fff) per reclamare più diritti e democrazia. Rimarranno nel palazzo della Fff fino al 27 maggio. E da quel giorno, finalmente, i protagonisti del calcio guadagnano ruolo politico e legittimazione.
Il boom dell'Ottantadue
La vittoria mondiale a Spagna 1982 giunge inattesa sul campo e altrettanto inattesa è la scoperta dello stato di salute in cui versa il calcio nazionale.
Si sta uscendo da tempi bui sia nel calcio che nella società italiana. Il primo scandalo di calcioscommesse (1980) aveva spazzato via i benefici effetti del quarto posto raggiunto dalla nazionale di Enzo Bearzot a Argentina 1978. E intorno il paese è devastato da violenza politica e crisi economica. In questo contesto la nazionale di Bearzot vince il mondiale più amato di sempre. E il calcio italiano si scopre colto da improvviso benessere, tanto quanto il paese che vive in quel decennio il proprio secondo boom economico.
E ancora una volta l'evoluzione del calcio riflette perfettamente la dinamica evolutiva del paese. La Serie A italiana diventa il campionato più bello e ricco del mondo, anche grazie alla riapertura delle frontiere (avvenuta nell'estate del 1980) che porta dalle nostre parti i migliori calciatori del pianeta. E i club italiani prendono a egemonizzare le competizioni europee. Ma quell'età dell'oro è anche la premessa del dissesto. Il calcio italiano non consolida tanta ricchezza, vive come se quel benessere avesse prospettiva di crescita illimitata. Lo stesso atteggiamento mostrato dal sistema-paese in quegli anni Ottanta.
Il mondiale di Italia 1990 segna la svolta in negativo: doveva essere il trionfo di un modello socio-economico rappresentato attraverso la punta di lancia del suo modello sportivo, e invece con l'insuccesso del campo parte il declino di un paese intero. Col calcio che declina più lentamente rispetto al paese che gli sta intorno (la discesa si completerà con la fine degli anni Zero), ma infine perde competitività internazionale.
La vittoria del 2006
Il trionfo ai mondiali di Germania 2006 giunge quando il calcio italiano tocca il punto massimo dello sfascio. La nazionale arriva ai mondiali portandosi addosso le ombre di Calciopoli, che non risparmiano nemmeno il commissario tecnico Marcello Lippi. Questi però compie un lavoro straordinario e porta in cima al mondo una nazionale italianissima per livello tecnico (buono) e temperamento (eccellente).
È però una nazionale che divide. Non sono pochi gli italiani che in essa non si riconoscono. Il timore che la vittoria mondiale avvii l'immediato revisionismo su Calciopoli è condiviso. E difatti non sarà infrequente sentir dire che «Calciopoli era in campo nella finale di Berlino contro la Francia», per sostenere che chi vinceva allora non avesse bisogno di truccare il gioco. Quella vittoria è comunque uno degli ultimi colpi di coda del calcio italiano, che di lì a poco vincerà il suo ultimo trofeo internazionale a livello di club (la Champions League 2009-10 conquistata dall'Inter). La frattura prodotta allora rimane irrisolta né il trionfo di quella nazionale basta a ricomporla.
E adesso?
Quali effetti dal trionfo di Wembley? Possiamo dire certamente che la nazionale di Roberto Mancini ha avuto un effetto unificante. Molti tifosi persi alla causa degli azzurri sono stati riconquistati, o comunque hanno guardato con simpatia alla squadra campione d'Europa. Rimane un dato di fatto, sul quale ci siamo espressi nei giorni scorsi: questa squadra è aliena rispetto al movimento calcistico nazionale, nettamente al di sopra del caos imperante. Per questo c'è da farle un augurio: non lasciarsi strumentalizzare, come dimostrazione di buon governo, da chi ha portato il calcio italiano in fondo al burrone. L'Italia di Roberto Mancini ha vinto non già grazie al calcio italiano, bensì nonostante il calcio italiano.
Se lo ricordi il commissario tecnico per primo e continui a lavorare come ha sempre fatto. E se lo ricordi il resto del movimento. Che dovrà dimostrare di meritarsela, questa nazionale.
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