- C'è un comfort food che cura le nostre malinconie e tristezze e che non fa ingrassare. È il comfort food digitale, lo mangiamo con gli occhi guardando programmi televisivi sul cibo o post sui social. Può essere food porn o food nostalgia
- Il food porn è la rappresentazione di cibo grasso, ipercalorico, zuccherato o comunque proibito dalle diete. Format e post sui social ce lo mostrano in primissimo piano in tutta la sua abbondanza e trasgressione.
- Il food nostalgia, come spesso il comfort food, ci riporta invece al passato, idealizzando l'epoca in cui eravamo bambini e tutto scorreva serenamente. Un trend cominciato in Gran Bretagna negli anni Sessanta grazie alla BBC.
E se da qualche parte esistesse il comfort food perfetto? Un comfort food capace di regalarci i suoi molti benefici emotivi senza però farci ingrassare, riempirci di brufoli o far decollare i livelli di colesterolo e trigliceridi? Detta così sembra un sogno, ma quel comfort food forse c’è, e lo divoriamo ogni giorno nelle nostre case in quantità sempre maggiore, spesso inconsapevoli che quello che stiamo mangiando sia, appunto, una forma di comfort food; usando, per mangiarlo con gusto, invece di forchetta e coltello, il telecomando o il mouse. Sì, un comfort food digitale, disponibile nelle nostre nuove dispense a schermo piatto: la televisione, il tablet, il telefonino o il computer.
Questo comfort food digitale può essere diviso in due grandi categorie, che con termini inglesi si chiamano rispettivamente food porn e food nostalgia (in inglese con l’accento sulla prima a). E purtroppo, alcune sue forme potrebbero non essere così perfette come sembrano.
Food porn
Per quanto riguarda il food porn, la sociologa americana Pauline Adema è stata tra i primi, in tempi non sospetti, ad avanzare l’ipotesi che il successo della televisione sul cibo (e oggi anche dei social media) vada ricondotto proprio al piacere emotivo che ci regala quel cibo, senza i danni che se assunto realmente quel cibo causa al nostro corpo.
Era il 2000, e in un articolo Adema scrisse che, in una società che ci giudica se mangiamo troppo, o con troppo zucchero, troppo sale, troppi grassi e così via, guardare in tv cibo grasso, zuccherato o ipercalorico è l’unico modo che abbiamo per godere di quel cibo senza essere condannati moralmente. Davanti a quei programmi, tutti noi mangiamo senza mangiare, godendo delle emozioni e della gioia che quel cibo ci dà ed evitando invece i danni fisici e il giudizio sociale. Rinunciando alla bocca, almeno attraverso gli occhi possiamo guarire la nostra tristezza, malinconia o depressione e non essere giudicati.
Una certa televisione sul cibo aiuta questo meccanismo con il linguaggio delle immagini. Prendiamo ad esempio programmi come Food advisor o Street food battle, entrambi condotti dallo chef e presentatore Simone Rugiati. In questi show, al di là di ciò che si racconta, quello che colpisce lo spettatore è il modo in cui l’atto del mangiare viene mostrato. I vari piatti, generalmente non proprio dietetici, sono inquadrati da molto vicino, in tutta la loro ricchezza e abbondanza. Grondano grasso, la telecamera li inquadra da vicinissimo mentre lo chef riversa su di loro panna o altri ingredienti proibiti. E da casa, a noi sembra già di mangiarli. Ma è solo l’inizio.
Perché mentre quel cibo tentatore occupa praticamente buona parte del nostro schermo, vediamo una forchetta entrare in scena e infilzarlo. Il cibo, sempre in primissimo piano, spilla gocce di grasso da ogni parte, trasuda abbondanza. Poi vediamo, con ogni dettaglio, quella delizia finire dentro la bocca del conduttore, e la telecamera cogliere le labbra, la lingua e i denti che assaporano quella delizia. A quel punto è ovvio che da casa noi stiamo mangiando con Rugiati, ma solo con gli occhi, esattamente come descritto dalla sociologa Adema. E quando guardiamo gli occhi del conduttore pieni di goduria, quegli occhi e quel godimento sono anche i nostri.
È molto interessante che questa modalità di rappresentazione riguardi anche altre persone dello show, i concorrenti o anche i passanti inquadrati per strada. Tutti e non solo lo chef, sembra dirci il programma, hanno il diritto di godere di quel cibo, e noi con loro. L’effetto comfort food è così pienamente raggiunto. Abbiamo mangiato quella leccornia proibita tramite Rugiati e le altre persone inquadrate dal programma senza ingrassare e senza peggiorare i nostri livelli di colesterolo e trigliceridi.
Modello anglosassone
Si tratta di uno stile televisivo nato nei paesi anglosassoni. In moltissimi format inglesi, americani o australiani possiamo vedere rappresentazioni del cibo e di chi lo mangia molto simili. Gli esperti di media, come si è detto sopra, lo chiamano food porn, perché rappresenta il cibo con la stessa attenzione ai minimi dettagli, la stessa ossessione e ripetitività con cui il cinema porno rappresenta il sesso e gli organi sessuali.
Luisa Stagi, che insegna sociologia all’università di Genova, al food porn ha dedicato un libro. «Questi programmi sono un po’ come il Carnevale», ci dice, «la società da una parte moralizza, dall’altra concede una specie di vacanza a tutti noi. In molti luoghi del mondo, più cresce la moralizzazione sessuale e più aumenta la pornografia. Con il cibo è lo stesso: più la società premia l’essere magri, più assistiamo a programmi che ci mostrano l’abbondanza e la trasgressione che puoi raggiungere tramite il cibo».
Se le si chiede se con i social media tutto questo sia cambiato, Stagi non ha dubbi: «Il meccanismo si è intensificato. Abbiamo visto che molto spesso nei blog dei personal trainer le pagine più viste sono quelle del cosiddetto giorno dello sgarro. Per settimane ti dicono che il corpo magro è il corpo sano, ma poi arriva il giorno che ti concedono di uscire dalla retta via e mangiare liberamente, per poi tornare rapidamente sulle rotaie della dieta. E i racconti di quel giorno vanno fortissimo».
Partendo da qui, Stagi ha studiato da vicino il mukbang, una pratica alimentare della Corea del Sud: «È un pasto abbondantissimo che ti prepari e consumi a casa da solo, mangiando con le mani, gridando, facendo rumori e altre cose che non si possono fare. Filmi il tutto e lo posti su internet. E così gli altri ti guardano mangiare dei piatti che, soprattutto per la quantità e le modalità di consumo, non mangeranno mai. È il contraltare alla pressione sociale che ti dice di non mangiare, un Carnevale del cibo, appunto». Che dura poco, lo spazio di un video su YouTube, come ogni Carnevale. Poi, tutti di nuovo a mangiare gallette.
Un’invenzione antica
In realtà non è stata la tv a inventare il food porn. I ricercatori del Food and Brand Lab della Cornell University hanno analizzato 140 quadri che ritraggono cibo dipinti tra il 1500 e il 2000. E hanno trovato che questo effetto del mangiare senza mangiare era già presente nella pittura rinascimentale, neoclassica o preraffaellita. Molti pittori, infatti, hanno rappresentato alcuni piatti in maniera più attraente di come erano davvero. Frutta e molluschi, ad esempio, venivano dipinti con tonalità di colore e forme più invitanti di quelle reali con lo scopo di far entrare il pubblico dentro l’opera e appunto, far mangiare quei cibi (almeno visivamente) a chi si accosta al quadro.
I media come la televisione hanno aggiunto a tutto questo il pubblico di massa. Nel mangiare con gli occhi i comfort food proibiti di Rugiati o di altri chef siamo in compagnia di milioni di persone in tutto il mondo. E così il comfort food, nato come qualcosa di personale (ognuno aveva il proprio comfort food, basti pensare ai madeleine di Proust), diventa collettivo. Un hamburger divorato da uno di questi chef diventa il comfort food di masse di spettatori in ogni angolo del pianeta Terra.
Un altro aspetto aggiunto dalla tv è l’interesse commerciale. Le industrie producono questi cibi e la pubblicità li promuove incessantemente, a volte anche sovvertendo la natura stessa degli ingredienti. Se ne era già accorto il semiologo Roland Barthes nel secolo scorso, quando aveva notato l’assurdità di alcune pubblicità in tv, ad esempio quelle che sottolineavano il relax e il senso di equilibrio che dà il caffè, una sostanza in realtà estremamente eccitante.
Stagi aggiunge che il food porn si intreccia anche con le questioni di genere: «È un’area prevalentemente maschile», dice. «Gli chef che offrono questo Carnevale del cibo sono quasi tutti uomini. Tra le pochissime donne che incarnano questo aspetto di disobbedienza alimentare c’è per esempio Nigella Lawson, una conduttrice inglese che apertamente gode di quello che mangia». Infine, il tema del consumo di questo cibo esagerato e abbondante è diventato anche politico. Conclude Stagi: «Si pensi ai post di Matteo Salvini di qualche anno fa, in cui l’ex ministro era ritratto sempre mentre mangiava cibo popolare, gustoso e calorico. Nelle intenzioni del suo social media manager questo doveva sottolineare il carattere deciso e forte, ma anche vicino alla gente, del leader della Lega».
La nostalgia
Ma il comfort food non è solo qualcosa che mangiamo quando ci sentiamo tristi. Da sempre è anche qualcosa che ci riporta al passato. E allora ecco la seconda categoria di cui si parlava all’inizio di questo articolo, il food nostalgia. Alcuni programmi sono basati su piatti tradizionali, evergreen della cucina che consumavamo quando eravamo ragazzini e che, rivisti oggi, ci riportano a quell’epoca felice. La fortuna di una conduttrice come Benedetta Rossi è dovuta anche a questo.
Tutto, nei programmi di Rossi, è un invito a guardare indietro: ovviamente i piatti che vengono preparati; ma anche la scenografia della cucina, che ignora totalmente le forme lineari più attuali e abbonda di rotondità, attrezzi in legno e piatti decorati che si usavano una volta; le frequenti citazioni della chef su nonne e zie che le hanno insegnato a cucinare; i tempi stessi del programma, estranei ai ritmi dei format più aggressivi come i talent alla Masterchef. Non è solo il prodotto, allora, a riportarci al passato, ma tutta l’atmosfera che il programma evoca.
La conferma che la nostalgia viene costruita anche da tutto quello che c’è attorno al piatto viene da un programma come L’Italia a morsi, condotto da Chiara Maci. La conduttrice va in giro per l’Italia e si fa ospitare a casa delle Cesarine, un gruppo formato prevalentemente da donne che ha come scopo quello di custodire la tradizione della cucina italiana, preparando piatti regionali secondo le ricette originali. Maci impara da loro la formula autentica, cucina insieme a queste esperte e offre al pubblico dettagli storici di quel piatto. Poi va a trovare produttori della zona che rispettano l’antico processo produttivo di alcuni cibi tradizionali italiani. Come nel caso di Rossi, il programma esalta il passato e l’epoca in cui questi piatti erano ogni giorno sulle tavole delle famiglie italiane. È chiaro che chi ha vissuto quell’epoca da bambino torni indietro a quei giorni, facendo di quel cibo il proprio comfort food.
Il passato torna nostalgicamente ad accarezzare lo spettatore anche in La cucina delle monache, programma ambientato in un’abbazia umbra e in cui quattro monache benedettine di Sant’Anna si alternano ai fornelli. Piatti semplici della cucina conventuale, certo, ma anche un’atmosfera serena, simile a quella che molti di noi hanno vissuto da bambini, anni luce lontana dalla nevrosi della vita adulta. Un Carnevale anche questo, quindi, opposto al food porn ma ugualmente efficace nell’interrompere il flusso della vita e dei pasti quotidiani, regalandoci conforto emotivo.
Il regionalismo
Un sottogenere fondamentale del food nostalgia in televisione è costituito dai programmi sulla tv regionale. Piatti pugliesi, siciliani, sardi, etc., sugli schermi digitali provocano in chi viene da quei luoghi, ma anche su un pubblico più generalista, un effetto nostalgia fortissimo. Uno dei maggiori successi di questo ramo della televisione sul cibo è Giusina in cucina, un format trasmesso da Food Network che si concentra esclusivamente sul cibo siciliano. Lo conduce Giusi Battaglia, palermitana che di mestiere cura la comunicazione di personaggi dello spettacolo come Ficarra e Picone, Antonino Cannavacciuolo e altri, e che si è trasformata in conduttrice per dare voce all’enorme passione per la cucina della sua isola.
Guardare una puntata di Giusina in cucina per un siciliano equivale a mangiare un madeleine per Proust. Come nel caso di Benedetta Rossi, il cibo è solo uno degli ingredienti del programma che riporta lo spettatore alla propria infanzia. Anche se Battaglia rinnova la tradizione, inserendo sempre nuovi ingredienti in piatti classici, lo show è una full-immersion nella Sicilia di una volta. Le ceramiche decorate, la scenografia, le fotografie in bianco e nero di siciliani a tavola e la storia dei cibi isolani a cui la conduttrice spesso e volentieri accenna hanno una capacità evocativa fortissima.
E così preparare il cous cous, i biscotti a S o la pasta alla norma diventa per i siciliani (soprattutto per quelli che vivono fuori dalla loro isola, a fortissimo rischio nostalgia) un’occasione irripetibile per gustare, almeno con gli occhi, un cibo che li riporta alla loro infanzia. Il tutto stando semplicemente seduti davanti alla tv. Forse non solo per chi è siciliano: «La gente ha amato moltissimo questo programma proprio perché ha riportato la maggior parte di loro al proprio passato», ci dice la conduttrice, «alle feste in famiglia, alle tavolate, alle ricette semplici di una volta. Non ho costruito nulla, però, il mio modo di fare tv è frutto di quello che faccio nella mia vita reale. Forse questo è stato il motore di tutto. Adesso dopo aver fatto oltre 100 puntate, capisco sempre di più quanto sia importante non perdere il ricordo e l’amore per le proprie origini».
Il discorso, come sempre, si espande sui social, dove Battaglia posta foto e resoconti di cibi siciliani insieme a relative esperienze di vita vissuta. Qui è molto evidente la capacità enorme dei social media di creare delle comunità attorno a qualsiasi cosa. «La Sicilia è già un brand», continua Battaglia , «io non ho fatto altro che comunicarla a modo mio. Le persone sono assetate di conoscenza, vogliono sapere come si fanno i piatti e si incuriosiscono circa le storie e gli aneddoti che ci sono dietro».
Si parte quindi dall’effetto comfort creato dalla televisione per espanderlo su Facebook, Instagram o Tik Tok, dove gli utenti hanno un ruolo attivo e, al contrario di quanto avviene in tv possono condividere memorie certamente dei cibi, ma anche di luoghi, persone e, infine, stili di vita. Partito da un piatto, l’effetto comfort adesso avvolge ogni tipo di esperienza. Sulla differenza di genere a cui si accennava prima, Giusi Battaglia ha qualche dubbio: «Credo che non esista, in cucina come in altri ambiti. Il cibo è un linguaggio talmente semplice e universale che può essere raccontato e mostrato da chiunque in qualsiasi modo».
All’estero
Quello che vale per il cibo siciliano, pugliese o napoletano vale, su scala molto più ampia, anche per l’estero. In Gran Bretagna, la Bbc aveva capito l’importanza della food nostalgia in tv fin dagli anni Sessanta, e aveva creato un dipartimento apposito per la produzione di programmi etnici, molti dei quali basati sul cibo. Si cominciarono così a produrre molti format sulla cucina degli indiani, degli italiani, dei cinesi e di altri popoli, guarda caso, presenti in massa in Gran Bretagna come immigrati in seguito alla rivoluzione industriale.
Erano loro il target di riferimento di questi show (oltre a quei britannici curiosi per i cibi e le culture di posti lontani e all’epoca difficilmente raggiungibili). Le ripercussioni sociali e politiche di questo sottogenere di televisione sul cibo erano chiare. L’effetto comfort food poteva servire anche a tenere buono l’umore degli immigrati che lavoravano nell’industria e a non farli sentire troppo alienati nei quartieri periferici di Londra o Manchester. Un comfort food industriale, precursore di quello digitale di oggi.
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